Ho passato nove anni della mia vita lavorando all'università, come 'assistente'. Un mestiere che non esiste.
Dopo la laurea, la carriera universitaria non mi era parsa una via percorribile. Poi, trovato un lavoro che mi permetteva di gestire un po' del mio tempo, lo è diventata: e in quel momento qualcuno mi ha chiamata.
Una vera fortuna.
Sono iniziati lì, i nove anni.
Lungo la via, tutto bene. Il tempo scorreva veloce come accade del tempo che si sente impiegato utilmente, e mi piaceva, e ne sono grata, nonostante tutto quel ch'è successo durante e poi, a chi me l'ha permesso.
Chi me l'ha permesso ha però permesso anche che si svolgesse un tipico rituale di sfruttamento a catena, basato sull'amicizia e sulla fiducia, sulle vaghe promesse e, ahimé, sulla mia disposizione ad ascoltare l'altrui continuo piagnisteo, le chiacchiere e i progetti personali di qualcuno di altamente inattendibile, inaffidabile. Comunque sia, il problema non è stato che costui fosse matto, ma che intorno ci fosse l'indifferenza più totale ai meccanismi personalistici con i quali sono stata 'assunta' e 'licenziata'.
Quando l'ho capito, cessata la mia pazienza, entrata in crisi l'amicizia, interrotto il pur modico flusso di denaro che ricevevo, il mio 'rapporto di lavoro' si è concluso, di botto e senza appello.
Mi sono messa a fare un dottorato, con la borsa. Tre anni di ricerca pagata, fa nulla se non era una paga da nababbi. È stato bello. Mi è sembrato di percepire anche della solidarietà.
Ma la solidarietà, nella classe universitaria, è una chimera. Raramente è diversa dalla protezione di una casta. E io ne ero fuori, come la maggior parte dei precari.
Sono stati tre anni intensi, ma altri tre anni di illusioni. Mi sembrava di nuovo di vivere in un paese possibile, dove esistessero regole a tutela del lavoro delle persone.
Nel frattempo, è passata la mannaia di questo Governo: fine dei concorsi, fine delle sostituzioni per i tanti che vanno in pensione. Ma non è più di me che voglio parlare.
Vanno dette alcune cose. Primo: l'assistente, il lavoratore che non esiste, ha tenuto spesso le fila, o ancora le tiene, dell'andamento di un corso, sorvegliando la smemoratezza del docente, rispondendo alle sue email, correggendo le tesi che lui/lei non leggeva, dando supporto, tenendo lezioni tappa-buchi. Tutto questo sulla base di una relazione di fiducia che mescola(va) informalmente privilegio e sfruttamento.
La riforma Gelmini ha avuto un triste “pregio”: accelerare la presa di responsabilità da parte di molti docenti che, di fronte all'impossibilità di pagare e poi piazzare i loro aiutanti, han deciso di far da soli.
In realtà, la riforma non ha fatto che accelerare il processo già in atto di riduzione dei contratti e delle borse e regolarizzazione dei compensi simbolici, destinati a chi se li può permettere. E confermare il destino dei ricercatori: fare i professori – con poco o nessun tempo o denaro per la ricerca – a vita, pagati assai meno di quelli 'veri', a tal mestiere deputati.
Tagliate molte discipline, accorpate altre – a volte anche con buone ragioni – i grandi privilegiati, cioè i professori già strutturati, e i piccoli privilegiati, cioè i ricercatori, si sono sobbarcati di un po' di lavoro in più, mentre molti contrattisti andavano a casa. Gli altri, i contrattisti rimasti, sopravvissuti alla mannaia, chi sono?
Sono i volontari di lusso, i volontari dell'eccellenza: eccellenza in cambio di prestigio. Intellettuali in carriera o pensionati con un reddito alto, che permette loro di aggiungere al loro curriculum una 'perla': il fatto di insegnare all'università. "Tuttogratis", o tutt'al più per un piccolo emolumento, una sorta di rimborso spese.
Fuori dunque gli sfruttati di buona volontà, i neolaureati, i dottorandi, gli studenti, i giovani studiosi capaci di barcamenarsi in qualche modo con due o tre lavoretti. In una parola: fuori i giovani.
Dentro chi ha già un reddito sicuro. Così la Gelmini risana il sistema ed evita lo sfruttamento! Anche Napolitano ha protestato contro la normativa, contenuta nell’articolo 23, sui contratti di insegnamento riservati agli 'esperti': la riforma chiede che per diventare professore a contratto (gratuito) si abbia un reddito esterno da quello universitario di almeno 40.000 euro lordi, una proposta pensata del resto, pare, da quei geni del PD, che quando mettono le mani nella cultura (vedi Veltroni) ne combinano di tutti i colori. Le intenzioni erano naturalmente buone, mettere fine alla pratica definita «precarizzare i ricercatori».
Come ha notato Napolitano, però, la norma introduce una limitazione oggettiva (il reddito) ai requisiti di carattere scientifico e professionale. E io aggiungerei: non la introduce, la radica e la legalizza ancora di più, perché il nostro sistema universitario è basato da sempre, tacitamente, sul reddito: da sempre, se non hai i soldi e quindi anche le conoscenze giuste, nell'università fai fatica, e se sei tenace arrivi al massimo al dottorato. Da sempre dovevi avere un po' di agio economico per poterti permettere la gavetta gratuita, unico modo per farsi davvero conoscere e 'misurare' da qualche docente, per essere introdotto alle persone che contano. E c'è da vincere concorsi, borse, posti. Ogni concorso è una possibilità per quelli che contano di usare il loro potere, manipolando le carte. Diventi merce di scambio.
Certo c'era anche il buonsenso di molti professori che almeno tentavano di operare, pur sulla base di queste premesse, la selezione dei migliori, e di accompagnarli lungo un cammino di acquisizione di strumenti, di saperi, di esperienze, preparandoli e promuovendoli all'interno della comunità scientifica.
Oggi stravincono i contratti a pochi euro, il risparmio totale, appoggiato sul senso del dovere o sulla fame di prestigio di professionisti e pensionati benestanti, i nuovi docenti a contratto gratuito.
La via per i giovani, e per i numerosi 'vecchi' come me che non sono ancora riusciti a entrare, è quella dei concorsi per ricercatore a tempo determinato e successiva, eventuale, conferma: un meccanismo studiato per garantire la possibilità di licenziamento finale, non certo la preparazione e la qualità. Comunque di concorsi non se ne vedono.
Quindi il problema non si pone.
I ricercatori, come detto non ricercano.
Gli studi umanistici e spesso anche quelli scientifici sono desolantemente fermi, o si muovono con tale parsimonia da prefigurare un'agonia.
La verità è che il sistema che assegna zero valore al merito e alla cultura ha ripreso vigore, con la scusa della crisi.
Ma non sono i denari a mancare, bensì proprio il riconoscimento di un valore.
È per questa assenza che non arrivano soldi ed energie pulite alla cultura. Manca totalmente il riconoscimento del valore morale, civile, interiore, umano, spirituale della cultura medesima: ed è questa stessa assenza che pompa il riconoscimento fasullo, ipocrita, l'osanna ai professori che vanno in tv, che scrivono sui giornali, che sanno vendere bene la loro immagine, che alzano la voce.
Manca il modo di utilizzarla, la cultura, nei suoi veri obiettivi. Manca la possibilità di trasmetterla con dignità. Mancano le case editrici che pagano, i periodici che pagano, gli sponsor privati che permettono vere operazioni culturali e non mediatiche, e poi mancano le risorse, gli strumenti, le leggi affinché le università, le amministrazioni comunali, le biblioteche, le case della cultura, gli istituti di studio e di ricerca promuovano il lavoro culturale e lo paghino il giusto, permettendo ai 'colti' di farsi trasmettitori sereni, né ricchi né poveri, né privilegiati né emarginati.
Manca l'appoggio alle cose fatte bene, con serietà, impegno, lentezza, analisi, passione.
Si foraggia, invece, un sistema di sfruttamento in cui la cultura è merce facilmente contabilizzata, in crediti per laurearsi, in punti per i concorsi: stranamente, a questi punti corrispondono somme precise ed elevate, quando si tratta di 'comprare' cultura: vuoi una laurea? Un master? Il sistema attuale facilita enormemente chi abbia il denaro sonante per acquistarla attraverso un bel corso privato, magari online. Vuoi 'venderla'? Beh, allora le cose cambiano. Se sei un venditore puro, un grossista, sei a posto. Ma se sei un trasmettitore di cultura, un piccolo produttore o un venditore al dettaglio, allora non resta che la svendita per pochi spiccioli. O la prostituzione per poche speranze.
lunedì 3 ottobre 2011
giovedì 9 giugno 2011
referendum, parco agricolo di expo e altre faccende
Ieri è andata in scena la presentazione del libro di Ragghianti. Si è parlato di collegamento fra attenzione per i beni artistici e consapevolezza dei dati, dei numeri, dei fatti che riguardano la società civile; si è parlato di collegamento fra la cultura e la realtà, che poi è determinata nella sua forma dalla cultura o incultura che la governa: se n'è parlato pur senza parlare, apparentemente, di politica, pur senza nominare la parola messa all'indice, 'ideologia', perché questi sono i nostri tempi, ci sono parole che fanno paura o dan fastidio, temi che annoiano. Ma 'ideologia' non vuol dire altro che insieme strutturato di idee, pensieri, che a volte son parsi tanto belli e importanti da consentire a qualcuno di usarli come un'arma terribile, per prendere un potere e abusarne, e questo è il loro pericolo, ma sono idee, cose, insomma, da non rinunciarci.
Possiamo continuare ad avere delle idee, sembra dire il non comunista Ragghianti nei suoi cinquant'anni di scritti. Si è parlato, mi è parso, anche di quel signore anziano che tre giorni fa in una piazza piena di gente ho sentito dire che il patrimonio di conquiste sudate da tante persone della sua età e da quelli che sono morti, conquiste che poi consistevano soprattutto nel diritto ad avere una voce nel proprio paese, non va gettato, e anche quello è un patrimonio da tutelare.
Quello stesso signore ha raccontato che per questo referendum, per i cinque milanesi oltre ai quattro nazionali, ha convinto sua suocera a recarsi ai seggi. Sua suocera ha 96 anni.
Avevo pensato a uno slogan per oggi e domani: CONVINCI UNA NONNA! Ma forse non ce n'è bisogno. I nonni e le nonne sono più pronti di noi. Allora, semplicemente, NON C'E' DUE SENZA TRE! ABBIAMO FATTO TRENTA, FACCIAMO TRENTUNO! Oppure CONVINCI TUA SUOCERA, qualunque età essa abbia. Promuoviamo questo referendum, la sacrosanta partecipazione dei cittadini è la prima difesa della salute delle idee.
I quesiti nazionali son più noti. Ecco invece il link in cui chi sostiene le ragioni dei sì di quelli comunali spiega di che cosa si tratta:
http://www.milanosimuove.it/wordpress/quesiti
Ed ecco, per il terzo quesito cittadino, quello che dice Milena Gabanelli, in chiusura di una puntata di Report, in cui i protagonisti del progetto del 'parco agoralimentare' che ora rischia l'affossamento sviscerano la questione:
In questi 3 anni tutto quello che si è deciso è che i terreni agricoli, valgono 10 volte tanto perché il progetto per cui l’Expo è stata destinata a Milano probabilmente cambia. Che cos’era questo progetto? Un’idea straordinaria, per una volta l’avevamo avuta noi, l’esposizione dell’agricoltura di tutto il mondo. Esponi il capitale naturale, ricostruendo i microclimi, lungo un chilometro con le coltivazioni dalle Filippine a quelle del Ghana dove vedi le piante del cacao,
del caffè, del tè che dall’altra parte degusti o acquisti. Un evento di formazione culturale,spettacolare e di business, ripetiamo lungo un chilometro, su un terreno agricolo che rimane tale anche quando finisce la fiera perché diventa permanente. Questo progetto è troppo rivoluzionario. Si preferisce il supermarket del cibo e i tradizionali padiglioni e quando la fiera finisce si smobilita e si edifica. A meno che il nuovo sindaco, che dovrà correre perché fra 4 anni si inaugura e c’è ancora tutto da fare, non abbia il coraggio del nuovo.
Possiamo continuare ad avere delle idee, sembra dire il non comunista Ragghianti nei suoi cinquant'anni di scritti. Si è parlato, mi è parso, anche di quel signore anziano che tre giorni fa in una piazza piena di gente ho sentito dire che il patrimonio di conquiste sudate da tante persone della sua età e da quelli che sono morti, conquiste che poi consistevano soprattutto nel diritto ad avere una voce nel proprio paese, non va gettato, e anche quello è un patrimonio da tutelare.
Quello stesso signore ha raccontato che per questo referendum, per i cinque milanesi oltre ai quattro nazionali, ha convinto sua suocera a recarsi ai seggi. Sua suocera ha 96 anni.
Avevo pensato a uno slogan per oggi e domani: CONVINCI UNA NONNA! Ma forse non ce n'è bisogno. I nonni e le nonne sono più pronti di noi. Allora, semplicemente, NON C'E' DUE SENZA TRE! ABBIAMO FATTO TRENTA, FACCIAMO TRENTUNO! Oppure CONVINCI TUA SUOCERA, qualunque età essa abbia. Promuoviamo questo referendum, la sacrosanta partecipazione dei cittadini è la prima difesa della salute delle idee.
I quesiti nazionali son più noti. Ecco invece il link in cui chi sostiene le ragioni dei sì di quelli comunali spiega di che cosa si tratta:
http://www.milanosimuove.it/wordpress/quesiti
Ed ecco, per il terzo quesito cittadino, quello che dice Milena Gabanelli, in chiusura di una puntata di Report, in cui i protagonisti del progetto del 'parco agoralimentare' che ora rischia l'affossamento sviscerano la questione:
In questi 3 anni tutto quello che si è deciso è che i terreni agricoli, valgono 10 volte tanto perché il progetto per cui l’Expo è stata destinata a Milano probabilmente cambia. Che cos’era questo progetto? Un’idea straordinaria, per una volta l’avevamo avuta noi, l’esposizione dell’agricoltura di tutto il mondo. Esponi il capitale naturale, ricostruendo i microclimi, lungo un chilometro con le coltivazioni dalle Filippine a quelle del Ghana dove vedi le piante del cacao,
del caffè, del tè che dall’altra parte degusti o acquisti. Un evento di formazione culturale,spettacolare e di business, ripetiamo lungo un chilometro, su un terreno agricolo che rimane tale anche quando finisce la fiera perché diventa permanente. Questo progetto è troppo rivoluzionario. Si preferisce il supermarket del cibo e i tradizionali padiglioni e quando la fiera finisce si smobilita e si edifica. A meno che il nuovo sindaco, che dovrà correre perché fra 4 anni si inaugura e c’è ancora tutto da fare, non abbia il coraggio del nuovo.
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mercoledì 1 giugno 2011
ragghianti al museo del novecento: la tutela dei beni culturali
questa volta non un'invettiva, ma cinquant'anni di invettive, dati, documenti, ragionamenti, appelli, iniziative pubbliche e proposte di un grande storico dell'arte a difesa del patrimonio artistico, culturale e ambientale d'Italia. Col vento arancione sarà una serata ancora più bella. Presentano Carlo Bertelli e Flavio Fergonzi, Museo del Novecento, Milano, ore 18.00: vi aspettiamo! (cliccate sul titolo)
martedì 31 maggio 2011
buon Pisapia a tutti!
Sotto sotto non ho mai smesso di essere un pochino orgogliosa della mia città, di credere nella vitalità delle forze che in questi vent'anni non solo hanno resistito al razzismo e agli ingranaggi del capitalismo più menefreghista, ma sono addirittura cresciute, hanno trovato nonostante tutto l'energia per mantenere il filo della cultura e della generosità. Fra queste, per esempio, anche alcune ottime iniziative del Leoncavallo, come La Terra Trema. Però Milano, che già ha una temperatura rigida d'inverno, stava diventando sempre più triste. Era una Milano sotto choc, ripetitiva, stanca. E stancante.
Ho amici nostalgici, che hanno vissuto qui da studenti ormai molti anni fa. Ricordano una città piena di fermento, di iniziative, di quella cultura che nutre i cervelli, ma scende anche in piazza e mantiene sull'attenti almeno una parte della classe politica, e alla fine porta con sé una festa e un po' di consapevolezza in più per tutti.
Quando c'erano i socialisti Milano era più sgangherata, le aiuole erano piene di erbacce e nelle strade, di buche, forse ce n'erano anche più di adesso. Però era ugualmente la città più 'europea' d'Italia, una città che a elencare i nomi dei 'cittadini illustri' ci si perde, fra artisti, poeti, studiosi, e tanti che hanno dedicato la vita a cercare di fare un mondo migliore, e a ricordare le iniziative coraggiose ugualmente ci si perde, dall'ironia del vecchio Derby al Piccolo Teatro, da Altroconsumo al Fai: ma è un filo rosso che non si è mai smarrito, perché a Milano è stata fondata Emergency negli anni Novanta, e nei Duemila Terre di Mezzo con la fiera etica di Fa' la cosa giusta.
I socialisti erano corrotti, e fu inevitabile mandarli a casa (come fu inevitabile mandare finalmente in fumo la vecchia e stracorrotta DC), ma c'è stata un po' di confusione. A Milano si dev'essere pensato che la colpa, da noi come in Unione Sovietica, fosse dell' “ideologia”, e si è cercato chi potesse mettere un po' d'ordine. Ma si è confusa l'ideologia col partitismo, la vitalità col disordine. Ricordo che tanti hanno gioito perché i nuovi amministratori parlavano soprattutto di aiuole fiorite e di benessere. Milano è anche una città dove è più facile illudersi di poter diventare qualcuno dal nulla, e il benessere è un'illusione data dal fatto che qua tutto costa caro, compreso il lavoro. Se puoi pagarti un affitto a Milano, vuol dire che ce l'hai fatta.
Non so se è anche per questo che la gente ha smesso di pensare, rincorrendo l'illusione e barcamenandosi fino alla fine del mese, o se la gente si è solo trovata con le spalle al muro, senza alternative valide. Perché ai tempi di Dalla Chiesa c'era il caos di tangentopoli, poi, a poco a poco, le deludenti trasformazioni del PCI non hanno aiutato i vari Fumagalli, Antoniazzi, Ferrante. Per tanti motivi, la città dei cittadini si è indebolita, si è lasciata guidare e anestetizzare, si è sospesa nel tran tran quotidiano, fluttuando fra la necessità di lavorare e il bisogno di farsi indifferente al peggioramento graduale della qualità di vita, all'aumentare del traffico e dello smog, alla chiusura dei negozi di quartiere e dei cinema, al crescere dei costi, allo scarso o nullo sostegno comunale agli asili e alle scuole, alla chiusura delle scuole civiche, alle crescenti difficoltà per gli anziani di trovare una dimensione urbana adatta anche a loro. I cittadini si sono dimenticati delle piazze. Soprattutto, si sono scordati di contare qualcosa, hanno delegato troppo, e attutito le delusioni come potevano.
Pisapia non ha ancora raggiunto tutti, ma a molti, con garbo e semplicità, ha ridato la sensazione di avere un ruolo nella loro città, e io gli auguro di cuore che questa gentilezza arancione sia sempre più contagiosa. E che questo contagio milanese, ma anche di Napoli, Trieste, Cagliari, Rho, Rivolta, Limbiate, Vergiate, :)... e di tutte le altre città che hanno fiducia nel potere dei cittadini di cambiare le cose, porti bene ai referendum di giugno.
Ho amici nostalgici, che hanno vissuto qui da studenti ormai molti anni fa. Ricordano una città piena di fermento, di iniziative, di quella cultura che nutre i cervelli, ma scende anche in piazza e mantiene sull'attenti almeno una parte della classe politica, e alla fine porta con sé una festa e un po' di consapevolezza in più per tutti.
Quando c'erano i socialisti Milano era più sgangherata, le aiuole erano piene di erbacce e nelle strade, di buche, forse ce n'erano anche più di adesso. Però era ugualmente la città più 'europea' d'Italia, una città che a elencare i nomi dei 'cittadini illustri' ci si perde, fra artisti, poeti, studiosi, e tanti che hanno dedicato la vita a cercare di fare un mondo migliore, e a ricordare le iniziative coraggiose ugualmente ci si perde, dall'ironia del vecchio Derby al Piccolo Teatro, da Altroconsumo al Fai: ma è un filo rosso che non si è mai smarrito, perché a Milano è stata fondata Emergency negli anni Novanta, e nei Duemila Terre di Mezzo con la fiera etica di Fa' la cosa giusta.
I socialisti erano corrotti, e fu inevitabile mandarli a casa (come fu inevitabile mandare finalmente in fumo la vecchia e stracorrotta DC), ma c'è stata un po' di confusione. A Milano si dev'essere pensato che la colpa, da noi come in Unione Sovietica, fosse dell' “ideologia”, e si è cercato chi potesse mettere un po' d'ordine. Ma si è confusa l'ideologia col partitismo, la vitalità col disordine. Ricordo che tanti hanno gioito perché i nuovi amministratori parlavano soprattutto di aiuole fiorite e di benessere. Milano è anche una città dove è più facile illudersi di poter diventare qualcuno dal nulla, e il benessere è un'illusione data dal fatto che qua tutto costa caro, compreso il lavoro. Se puoi pagarti un affitto a Milano, vuol dire che ce l'hai fatta.
Non so se è anche per questo che la gente ha smesso di pensare, rincorrendo l'illusione e barcamenandosi fino alla fine del mese, o se la gente si è solo trovata con le spalle al muro, senza alternative valide. Perché ai tempi di Dalla Chiesa c'era il caos di tangentopoli, poi, a poco a poco, le deludenti trasformazioni del PCI non hanno aiutato i vari Fumagalli, Antoniazzi, Ferrante. Per tanti motivi, la città dei cittadini si è indebolita, si è lasciata guidare e anestetizzare, si è sospesa nel tran tran quotidiano, fluttuando fra la necessità di lavorare e il bisogno di farsi indifferente al peggioramento graduale della qualità di vita, all'aumentare del traffico e dello smog, alla chiusura dei negozi di quartiere e dei cinema, al crescere dei costi, allo scarso o nullo sostegno comunale agli asili e alle scuole, alla chiusura delle scuole civiche, alle crescenti difficoltà per gli anziani di trovare una dimensione urbana adatta anche a loro. I cittadini si sono dimenticati delle piazze. Soprattutto, si sono scordati di contare qualcosa, hanno delegato troppo, e attutito le delusioni come potevano.
Pisapia non ha ancora raggiunto tutti, ma a molti, con garbo e semplicità, ha ridato la sensazione di avere un ruolo nella loro città, e io gli auguro di cuore che questa gentilezza arancione sia sempre più contagiosa. E che questo contagio milanese, ma anche di Napoli, Trieste, Cagliari, Rho, Rivolta, Limbiate, Vergiate, :)... e di tutte le altre città che hanno fiducia nel potere dei cittadini di cambiare le cose, porti bene ai referendum di giugno.
giovedì 26 maggio 2011
la fine arriva per tutti
Basta! Qualcuno la spenga. L'Italia non ha bisogno di questa chiacchiera erosiva, continua, che assorda e brucia le cellule grige del paese con la sua desolata, cigolante insistenza. Ogni giorno la macchina da parole del premier riesce a coniare un nuovo piccolo slogan che si aggiunge ai vecchi, senza novità, rinforzando il massiccio rumore di ferraglia che procede, e procede, estenuante, imponendo ai nostri timpani il ritornello di un disco rotto. Ogni giorno mi chiedo quale premio meriti il proprietario della vocetta che, pur così ripetitiva, riesce ad aggiungere ogni volta una piccola trovata: alla stupidità o alla furbizia? Sotto sotto, spero che la fossa che si sta scavando sia finalmente larga abbastanza da farcelo cadere con il suo marchingegno bisunto. Forse il momento è giunto.
Non so che effetto faccia tutto questo a chi lo sostiene ma a me fa l'effetto di un'offesa costante, di un continuo tentativo di avvilire non solo chi la pensa diversamente, ma semplicemente chi prova, per una inveterata e sciocca abitudine alla responsabilità, a pensare e a seguire il buon senso. Chi pensa non ha molte alternative: o sostiene la sua baracca – che però è un'operazione per lo più contraddittoria – o incappa nell'anatema, finisce fra i terroristi, fra gli autori della congiura ai suoi danni, fra chi complotta per non dargli il seggio imperiale a vita. Italiani, lui governa, lui sistema le cose, lui pensa: chi non ci crede, o dubita, o prova a pensare con la sua testa va all'indice, diventa una espressione di violenza anti-lui, perché tutto ciò che non viene da lui è anti-lui.
Forse però questo rumore così molesto, stridulo, che a volte mi ha intimorita per il pericolo in cui ha messo e mette il mio paese (pericolo di lenta ma progressiva degenerazione delle strutture democratiche e della cultura della responsabilità di tutti i cittadini), sta diventando una filastrocca innocua. Forse anche la macchina megafonica di questo presuntuoso napoleone de noaltri, per quanto continuamente oliata, a furia di ripetersi sta per esplodere dall'interno, a causa del suo stesso difetto di costruzione.
Forse è ora di darle un colpetto per aiutarla a smettere di soffrire.
Ma la cosa migliore, invece, credo sia smettere di occuparsene, perché la malattia può passare se non la si guarda troppo, se si arriva a una reale indifferenza, che non sia abitudine-prodromo dell'accettazione, ma vera e sana indifferenza, ricominciare a respirare e a muoversi, rafforzarsi nel proprio cammino di libertà anche quando i valori di democrazia, di solidarietà, di fratellanza sociale, di attenzione al bene comune, di rispetto, di cultura, di intelligenza, di consapevolezza, anche quando questi valori dicevo sono stati fiaccati, obliati nella loro storia, apparentemente annullati dalla crosta di intrattenimento televisivo con cui la vocetta tenta di divertire gli Italiani, pensando che così continueranno, con gratitudine a votarlo per sempre. Ma di televisione non campa né lo stomaco né il cervello, e questo, prima o poi, gli Italiani lo capiranno.
Non so che effetto faccia tutto questo a chi lo sostiene ma a me fa l'effetto di un'offesa costante, di un continuo tentativo di avvilire non solo chi la pensa diversamente, ma semplicemente chi prova, per una inveterata e sciocca abitudine alla responsabilità, a pensare e a seguire il buon senso. Chi pensa non ha molte alternative: o sostiene la sua baracca – che però è un'operazione per lo più contraddittoria – o incappa nell'anatema, finisce fra i terroristi, fra gli autori della congiura ai suoi danni, fra chi complotta per non dargli il seggio imperiale a vita. Italiani, lui governa, lui sistema le cose, lui pensa: chi non ci crede, o dubita, o prova a pensare con la sua testa va all'indice, diventa una espressione di violenza anti-lui, perché tutto ciò che non viene da lui è anti-lui.
Forse però questo rumore così molesto, stridulo, che a volte mi ha intimorita per il pericolo in cui ha messo e mette il mio paese (pericolo di lenta ma progressiva degenerazione delle strutture democratiche e della cultura della responsabilità di tutti i cittadini), sta diventando una filastrocca innocua. Forse anche la macchina megafonica di questo presuntuoso napoleone de noaltri, per quanto continuamente oliata, a furia di ripetersi sta per esplodere dall'interno, a causa del suo stesso difetto di costruzione.
Forse è ora di darle un colpetto per aiutarla a smettere di soffrire.
Ma la cosa migliore, invece, credo sia smettere di occuparsene, perché la malattia può passare se non la si guarda troppo, se si arriva a una reale indifferenza, che non sia abitudine-prodromo dell'accettazione, ma vera e sana indifferenza, ricominciare a respirare e a muoversi, rafforzarsi nel proprio cammino di libertà anche quando i valori di democrazia, di solidarietà, di fratellanza sociale, di attenzione al bene comune, di rispetto, di cultura, di intelligenza, di consapevolezza, anche quando questi valori dicevo sono stati fiaccati, obliati nella loro storia, apparentemente annullati dalla crosta di intrattenimento televisivo con cui la vocetta tenta di divertire gli Italiani, pensando che così continueranno, con gratitudine a votarlo per sempre. Ma di televisione non campa né lo stomaco né il cervello, e questo, prima o poi, gli Italiani lo capiranno.
giovedì 19 maggio 2011
bed and breakfast sottovuoto
Se apri un bed and breakfast in Lombardia, il breakfast può essere costituito solo da alimenti confezionati. Per fortuna abito in Lombardia, così è più facile che debba andare in un bed and breakfast di altra regione, dove magari le regole impongono un panorama meno asettico. Ma se proprio devo sceglierne uno lombardo, ovviamente cercherò qualcuno che trasgredisca la norma. Norma che sembra fatta apposta per affossare la qualità e gradevolezza dell'ospitalità nei bed and breakfast di questa regione.
E che fa parte di quelle norme che regolano la produzione e somministrazione di alimenti imponendo il massimo dell'igiene anche a discapito della bontà e del piacere che si possono avere solo entro un rapporto di fiducia e di complicità fra chi dà da mangiare e chi mangia.
Se un cuoco antipatico e sporco si infila la mano guantata sotto le mutande per grattarsi, il guanto di lattice che mi porgerà il piatto sarà sporco. Se una commessa disattenta e munita di camice e di cuffia starnutisce sopra il pane, il pane sarà umido del suo raffreddore.
Ma se una persona gentile mi accoglie in casa sua, e mi spiega che all'apertura del bed and breakfast era entusiasta di poter fare delle crostate di frutta per gli ospiti, ma non può più farle, ed è costretta a darmi i biscotti con le gocciole di cioccolato che tra l'altro io detesto, il pacco di biscotti che mi porgerà, non per sua colpa, sarà osceno.
Cari amministratori, forse ci avete messo tutta la vostra buona volontà, ma questa è l'oscenità della vostra ignoranza, del vostro limite, della vostra assuefazione a un progresso che sterilizza la vitalità della gente.
E che fa parte di quelle norme che regolano la produzione e somministrazione di alimenti imponendo il massimo dell'igiene anche a discapito della bontà e del piacere che si possono avere solo entro un rapporto di fiducia e di complicità fra chi dà da mangiare e chi mangia.
Se un cuoco antipatico e sporco si infila la mano guantata sotto le mutande per grattarsi, il guanto di lattice che mi porgerà il piatto sarà sporco. Se una commessa disattenta e munita di camice e di cuffia starnutisce sopra il pane, il pane sarà umido del suo raffreddore.
Ma se una persona gentile mi accoglie in casa sua, e mi spiega che all'apertura del bed and breakfast era entusiasta di poter fare delle crostate di frutta per gli ospiti, ma non può più farle, ed è costretta a darmi i biscotti con le gocciole di cioccolato che tra l'altro io detesto, il pacco di biscotti che mi porgerà, non per sua colpa, sarà osceno.
Cari amministratori, forse ci avete messo tutta la vostra buona volontà, ma questa è l'oscenità della vostra ignoranza, del vostro limite, della vostra assuefazione a un progresso che sterilizza la vitalità della gente.
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venerdì 6 maggio 2011
referendum: alle urne per non privatizzare la democrazia
Quante volte mi sono arrabbiata perché sentivo dire da qualche amica o amico, o parente frasi come questa:
la politica? non mi interessa, tanto fa schifo, io non voto, destra o sinistra è tutto marcio, fan quel che vogliono loro in ogni caso, i referendum non servono a nulla, sono una spesa inutile, ho da fare, devo sistemare la casetta al mare, devo pulire il sedere ai bambini, devo andare al ristorante, è tutto un raggiro, perché dovrei rinunciare al week end dalla nonna che si spupazza i pargoli, ha il decoder di sky a casa e ha già tolto le pizze dal freezer?
Già, ma allora, che cosa resta da fare? Mangiare la pizza decongelata, guardare Doctor House e andare a dormire? O mangiare la pizza e recarsi a Montecitorio in veste di kamikaze con problemi digestivi? Leggere Diderot e scrivere un blog sulla rivoluzione francese? Entrare in scientology o nei cristiani rinati e trovare la luce?
Ma no, in fondo non c'è niente di meglio meglio che continuare così, almeno finché c'è la nonna col decoder: chinare la testa, come per secoli i contadini con i feudatari, i servi con gli aristocratici. Lasciare che costruiscano i loro imperi sui nostri corpi, sui nostri tetti, sui nostri rubinetti, sui nostri prati, sui nostri mari. Tanto non abbiamo potere di cambiare le cose: inutile fare finta di esercitarlo sacrificando la vacanza fuori porta!
Infine, la privatizzazione di ogni cosa è inarrestabile, è una legge di natura, il capitale vince sempre, quindi a che servirebbe prolungare quest'agonia?
E poi, a dire la verità, di questi referendum non ci ho capito nulla, sono questioni complicate, non possono delegare noi a decidere, facciano loro, visto che li paghiamo, almeno facciano il loro mestiere.
Ecco, forse sono questi i dubbi che in modo più o meno consapevole ed elaborato attraversano la testa di molti, e in certi momenti me ne sono sentita contagiata anch'io. E' una base di rinuncia, di senso di impotenza, di rabbia rivolta all'interno invece che all'esterno, covata e quindi sopita, tenuta bassa sotto le braci, per non sentirla, addomesticata giorno dopo giorno da abitudini compensative: lavoro, cibo, svago, acquisti, vacanze, tran-tran quotidiano. Oppure sbandierata in lamentele, in aggressività priva di veri obiettivi, bombe che non fanno male a nessuno, tranne a chi le lancia e alle persone che le-gli vogliono bene. Così, assopendo la rabbia, si assopisce anche la nostra comprensione del mondo che ci circonda.
Beh, se si rinuncia alla vecchia lotta per il bene comune, fuori di retorica, si rinuncia a una parte vitale e importantissima del nostro stesso essere. Chiamatela dignità, valore, anima. È il nostro posto nel mondo degli umani.
E se si rinuncia per due 'piccoli' referendum, si rinuncia al primo passo, alla base, a una delle poche forme di potere, simbolica e reale al tempo stesso, che abbiamo di fronte alla collettività.
La confusione è una scusa, è chiaro: informarsi è possibile. Ma la cosa grave è che la confusione è una sconfitta: se ci dichiariamo confusi, vuol dire che la strategia di quelli che vogliono 'privatizzare' la democrazia ha vinto.
Se ci convincono che andare al referendum è inutile, il meccanismo di delega viene spinto oltre i confini leciti, dal terreno politico a quello economico. Muore la delega democratica, rinasce il feudalesimo. Rinuncio al controllo. Delego (e pago) per essere un servo, non un cittadino.
E guarda di che referendum si tratta. Primo: privatizzare. Ergo: libertà per chi favorisce le imprese di entrare in una complicità basata sui profitti. Ricordatevi di Rango (chi controlla l'acqua controlla ogni cosa). Secondo: legittimo impedimento. Fine di uno strumento di controllo democratico. Altro che moschee, zingari, extracomunitari. Qui si fanno leggi che come ha detto qualcuno non sono ad personam, ma ad personas: sono leggi per depenalizzare i reati di una casta ricca, e per facilitare lo scambio di favori con quei quattro o cinque che guidano società cui noi prestiamo denaro all'infinito. Fiat, Telecom, Parmalat, e domani le nuove aziende di distribuzione dell'acqua, della luce, del gas. Maneggiano fiumi di denaro che noi, evitando di andare al referendum, accettiamo di farci rubare per sempre. Perché questa forma di 'liberismo' significa che chi ha tanto denaro ha il potere di modificare le leggi. Chi ha tanto denaro vuole controllare anche i tribunali. Diamo loro il diritto di fare i soldi grazie al controllo totale delle nostre esigenze elementari: acqua, riscaldamento, luce.
Volete passare serate tranquille, dopo una giornata faticosa? Ebbene, sembra che una pizza surgelata e una serata tranquilla valgano più del nostro diritto e dovere di essere cittadini del nostro paese.
La confusione e il senso di impotenza sono il risultato di una strategia. Fare il cittadino è troppo faticoso. È un mestiere che nessuno vuole più fare: non è un diritto, ma un peso. Nessuno ci paga, per essere cittadini consapevoli ed esprimere la nostra opinione. Allora tanto vale. Ci dicono che le cose sono più complesse di quanto noi crediamo: è verosimile. Ci crediamo. Ci dicono che loro possono fare il meglio per noi e risparmiarci ogni fatica. Questo è meno verosimile. Al posto dell'acqua pubblica, ci beviamo un sacco di bugie ben camuffate. Volete una serata tranquilla? Accendete la tv, spegnete il senso di responsabilità, il senso critico, ecco fatto. Vi diranno che l'importante è non costruire moschee, non dare case agli zingari, non far tornare i terroristi rossi. E ci crederete, perché è facile.
Anche io mi sono scoraggiata. Ho pensato: questo referendum non otterrà mai il quorum, è inutile lottare. Le televisioni, le radio nazionali ne parlano pochissimo, c'è una censura in atto, che posso fare io con il mio piccolo blog?
Ma poi mi sono detta: posso dire quello che penso, posso esprimere la mia opinione, posso votare, posso andare al referendum, posso parlarne con gli amici e conoscenti, di ogni partito e fede politica, e dire loro questo: la più grande menzogna è che esercitare questi nostri piccoli poteri sia troppo faticoso, che non ne valga la pena, che sia meglio delegare ogni cosa e che così tutto andrà bene, che quelli che ci hanno indotto il disgusto per la politica faranno bene il loro lavoro, ci accudiranno, faranno dell'Italia un paese migliore, ci proteggeranno, ci garantiranno di vivere in un sistema perfettamente regolamentato e funzionale, e tutto senza mai disturbare i nostri tranquilli week end di campagna.
la politica? non mi interessa, tanto fa schifo, io non voto, destra o sinistra è tutto marcio, fan quel che vogliono loro in ogni caso, i referendum non servono a nulla, sono una spesa inutile, ho da fare, devo sistemare la casetta al mare, devo pulire il sedere ai bambini, devo andare al ristorante, è tutto un raggiro, perché dovrei rinunciare al week end dalla nonna che si spupazza i pargoli, ha il decoder di sky a casa e ha già tolto le pizze dal freezer?
Già, ma allora, che cosa resta da fare? Mangiare la pizza decongelata, guardare Doctor House e andare a dormire? O mangiare la pizza e recarsi a Montecitorio in veste di kamikaze con problemi digestivi? Leggere Diderot e scrivere un blog sulla rivoluzione francese? Entrare in scientology o nei cristiani rinati e trovare la luce?
Ma no, in fondo non c'è niente di meglio meglio che continuare così, almeno finché c'è la nonna col decoder: chinare la testa, come per secoli i contadini con i feudatari, i servi con gli aristocratici. Lasciare che costruiscano i loro imperi sui nostri corpi, sui nostri tetti, sui nostri rubinetti, sui nostri prati, sui nostri mari. Tanto non abbiamo potere di cambiare le cose: inutile fare finta di esercitarlo sacrificando la vacanza fuori porta!
Infine, la privatizzazione di ogni cosa è inarrestabile, è una legge di natura, il capitale vince sempre, quindi a che servirebbe prolungare quest'agonia?
E poi, a dire la verità, di questi referendum non ci ho capito nulla, sono questioni complicate, non possono delegare noi a decidere, facciano loro, visto che li paghiamo, almeno facciano il loro mestiere.
Ecco, forse sono questi i dubbi che in modo più o meno consapevole ed elaborato attraversano la testa di molti, e in certi momenti me ne sono sentita contagiata anch'io. E' una base di rinuncia, di senso di impotenza, di rabbia rivolta all'interno invece che all'esterno, covata e quindi sopita, tenuta bassa sotto le braci, per non sentirla, addomesticata giorno dopo giorno da abitudini compensative: lavoro, cibo, svago, acquisti, vacanze, tran-tran quotidiano. Oppure sbandierata in lamentele, in aggressività priva di veri obiettivi, bombe che non fanno male a nessuno, tranne a chi le lancia e alle persone che le-gli vogliono bene. Così, assopendo la rabbia, si assopisce anche la nostra comprensione del mondo che ci circonda.
Beh, se si rinuncia alla vecchia lotta per il bene comune, fuori di retorica, si rinuncia a una parte vitale e importantissima del nostro stesso essere. Chiamatela dignità, valore, anima. È il nostro posto nel mondo degli umani.
E se si rinuncia per due 'piccoli' referendum, si rinuncia al primo passo, alla base, a una delle poche forme di potere, simbolica e reale al tempo stesso, che abbiamo di fronte alla collettività.
La confusione è una scusa, è chiaro: informarsi è possibile. Ma la cosa grave è che la confusione è una sconfitta: se ci dichiariamo confusi, vuol dire che la strategia di quelli che vogliono 'privatizzare' la democrazia ha vinto.
Se ci convincono che andare al referendum è inutile, il meccanismo di delega viene spinto oltre i confini leciti, dal terreno politico a quello economico. Muore la delega democratica, rinasce il feudalesimo. Rinuncio al controllo. Delego (e pago) per essere un servo, non un cittadino.
E guarda di che referendum si tratta. Primo: privatizzare. Ergo: libertà per chi favorisce le imprese di entrare in una complicità basata sui profitti. Ricordatevi di Rango (chi controlla l'acqua controlla ogni cosa). Secondo: legittimo impedimento. Fine di uno strumento di controllo democratico. Altro che moschee, zingari, extracomunitari. Qui si fanno leggi che come ha detto qualcuno non sono ad personam, ma ad personas: sono leggi per depenalizzare i reati di una casta ricca, e per facilitare lo scambio di favori con quei quattro o cinque che guidano società cui noi prestiamo denaro all'infinito. Fiat, Telecom, Parmalat, e domani le nuove aziende di distribuzione dell'acqua, della luce, del gas. Maneggiano fiumi di denaro che noi, evitando di andare al referendum, accettiamo di farci rubare per sempre. Perché questa forma di 'liberismo' significa che chi ha tanto denaro ha il potere di modificare le leggi. Chi ha tanto denaro vuole controllare anche i tribunali. Diamo loro il diritto di fare i soldi grazie al controllo totale delle nostre esigenze elementari: acqua, riscaldamento, luce.
Volete passare serate tranquille, dopo una giornata faticosa? Ebbene, sembra che una pizza surgelata e una serata tranquilla valgano più del nostro diritto e dovere di essere cittadini del nostro paese.
La confusione e il senso di impotenza sono il risultato di una strategia. Fare il cittadino è troppo faticoso. È un mestiere che nessuno vuole più fare: non è un diritto, ma un peso. Nessuno ci paga, per essere cittadini consapevoli ed esprimere la nostra opinione. Allora tanto vale. Ci dicono che le cose sono più complesse di quanto noi crediamo: è verosimile. Ci crediamo. Ci dicono che loro possono fare il meglio per noi e risparmiarci ogni fatica. Questo è meno verosimile. Al posto dell'acqua pubblica, ci beviamo un sacco di bugie ben camuffate. Volete una serata tranquilla? Accendete la tv, spegnete il senso di responsabilità, il senso critico, ecco fatto. Vi diranno che l'importante è non costruire moschee, non dare case agli zingari, non far tornare i terroristi rossi. E ci crederete, perché è facile.
Anche io mi sono scoraggiata. Ho pensato: questo referendum non otterrà mai il quorum, è inutile lottare. Le televisioni, le radio nazionali ne parlano pochissimo, c'è una censura in atto, che posso fare io con il mio piccolo blog?
Ma poi mi sono detta: posso dire quello che penso, posso esprimere la mia opinione, posso votare, posso andare al referendum, posso parlarne con gli amici e conoscenti, di ogni partito e fede politica, e dire loro questo: la più grande menzogna è che esercitare questi nostri piccoli poteri sia troppo faticoso, che non ne valga la pena, che sia meglio delegare ogni cosa e che così tutto andrà bene, che quelli che ci hanno indotto il disgusto per la politica faranno bene il loro lavoro, ci accudiranno, faranno dell'Italia un paese migliore, ci proteggeranno, ci garantiranno di vivere in un sistema perfettamente regolamentato e funzionale, e tutto senza mai disturbare i nostri tranquilli week end di campagna.
giovedì 28 aprile 2011
habemus papam: controinvettiva
C'è una denuncia, forse fasulla, da parte dei buontemponi di Pontifex, che poi buontemponi non sono perché suscitano ilarità, ma non se ne accorgono. Denuncia per oltraggio al papa attuale, che secondo loro sarebbe adombrato dalla comica – ma infine anche simpatica – figura del teutonico cardinale Brummer. In effetti qualche somiglianza c'è e si può anche immaginare, a voler scatenare una fantasia un po' maliziosa, che un ipotetico seguito della storia prevederebbe l'elezione proprio di quel poco amato Brummer, individuato a quel punto dai porporati come il meno spaventato dalla carica pontificale in grazia della sua venatura di umana ambizione, ma ben lontano dal rispondere ai necessari requisiti che il bravo Piccoli esterna con voce rotta dal papale balcone. Ogni allusione a Ratzinger e a una sua carenza è resa possibile dalla scena finale, ed è ammessa dallo stesso Moretti in qualche intervista. Ma è un monito, non un oltraggio. Di quelli che gli artisti possono rivolgere ai potenti.
Ma veniamo alle invettive antimorettiane.
Ci sono lamentele generiche per il tratteggio caricaturale delle figure dei cardinali. In effetti, che caricatura qua e là ci sia, non si può negarlo, e funziona: fa ridere! Fosse stato un film cattolico, ci scommetto, la comicità dei rossi vecchietti sarebbe stata accolta anche dagli integralisti con somma compiacenza.
C'è chi condanna per cattivo gusto la scena dei cardinali che vogliono uscire per fare una buona colazione: in effetti, golosoni, Dante non li perdonerebbe. Ci sono alti lai e proteste per la scena del torneo: passi che giochino a carte, ma questo è inverosimile, si dice. In effetti, è inverosimile, e altro non si può aggiungere, a discolpa del vecchio Moretti. Ma è poi da discolpare? Qualcuno aveva per caso capito che trattavasi di film realistico?
Da questi e consimili guaiti il film uscirebbe come irrispettoso, inutile, superficiale, mal riuscito.
Ebbene il film, oltre che essere giudicato dai più interessante, serio, commovente e profondamente rispettoso, e nello stesso tempo anche equilibrato e divertente, è “utile” in quanto è bello, ma è utile anche perché provoca la messa in luce dei peggio focolai di integralismo cattolico in Italia.
Non che ce ne fosse molto bisogno. Di sentir parlare prelati ignoranti in televisione se ne han piene le tasche; e quanto all'integralismo che applica la morale cattolica a ogni piega della vita italiana ne abbiamo esempi continui. Eppure Habemus papam dice che c'è speranza, perché le reazioni negative sono poche e sparute.
Di Pontifex già si sapeva. Mai me lo sarei aspettato, invece, da Farinotti (sì, quello del dizionario, il "più grande critico del cinema del mondo", come recita la descrizione del suo fanclub, http://pinofarinotti.blogspot.com) che non conoscevo sotto questo profilo, e che è scivolato in due delle sue peggiori performance critiche: la prima è una critica preventiva, la recensione scritta prima che il film uscisse, un'esibizione funambolica che a posteriori svela tutto il suo ridicolo (il brano dà per scontato che il papa di Moretti abbia problemi con la fede). La seconda tenta di rimediare, impegnandosi altrettanto funambolicamente a convalidare il giudizio morale negativo, travestito nei panni di un assai debole giudizio cinematografico. Farinotti annaspa nel tentativo di dimostrare che l'acqua calda è calda, e cioè che l'intero film sia “inverosimile”, e a poco a poco annega nel suo stesso brodino di cottura.
Invece il film di Moretti ha del miracoloso. Mostra la salute del pubblico e anche di una parte della critica italiana. Ecco il miracolo, anzi la serie di piccoli miracoli:
1. svela che l'ala ignorante dell'integralismo cattolico in Italia è tutto sommato piuttosto debole e rarefatta.
2. quel 'mangiapreti' di Moretti da cui molti si aspettavano che dicesse sul papa qualcosa di sinistra ha invece detto cose poetiche, universali, umane.
3. quelli che si pregustavano un film anticlericale hanno gradito il film nonostante l'iniziale delusione, perché hanno capito.
4. i cattolici hanno gradito il film a meno che avessero farinottiane fette di salame preventive sugli occhi, o fossero militanti di cielle di bassa lega, il che è perfettamente lo stesso (salvo che, se sei ciellino, oltre ad avere le tue fette ne porti una scorta che tenti di appiccicare sugli occhi altrui).
Forse Moretti non prenderà la Palma d'oro, anche perché gliel'han già data per La stanza del figlio, Piccoli certo meriterebbe un premio. Entrambi meritano un grazie. Habemus papam fa scivolare il nostro occhio lentamente e senza retorica fin nelle viscere di un uomo-papa che ci parla del tragico disorientamento rispetto ai ruoli di potere, e del dolore esistenziale che ne consegue, grande e inevitabile, fino all'emozione di un finale che è catarsi, ammissione di debolezza, ma anche affermazione di un valore. Le parole finali, sulla necessità della comprensione, ci lasciano con una sensazione di vuoto bruciante. Eppure non annullano la dimensione positiva del film, che prende equilibrio e forza dalla sua vena ironica e autoironica, con il suo continuo sconfinare fuori dalla realtà e con le sue battute, pronte per diventare altrettanti tormentoni dei mesi a venire, grucce adatte per i momenti di crisi di fronte alla percezione dello scollamento fra il nostro potere – di comprendere e di agire – e l'esercizio incomprensivo, violento e improvvido di chi di potere ne ha tanto.
Ma veniamo alle invettive antimorettiane.
Ci sono lamentele generiche per il tratteggio caricaturale delle figure dei cardinali. In effetti, che caricatura qua e là ci sia, non si può negarlo, e funziona: fa ridere! Fosse stato un film cattolico, ci scommetto, la comicità dei rossi vecchietti sarebbe stata accolta anche dagli integralisti con somma compiacenza.
C'è chi condanna per cattivo gusto la scena dei cardinali che vogliono uscire per fare una buona colazione: in effetti, golosoni, Dante non li perdonerebbe. Ci sono alti lai e proteste per la scena del torneo: passi che giochino a carte, ma questo è inverosimile, si dice. In effetti, è inverosimile, e altro non si può aggiungere, a discolpa del vecchio Moretti. Ma è poi da discolpare? Qualcuno aveva per caso capito che trattavasi di film realistico?
Da questi e consimili guaiti il film uscirebbe come irrispettoso, inutile, superficiale, mal riuscito.
Ebbene il film, oltre che essere giudicato dai più interessante, serio, commovente e profondamente rispettoso, e nello stesso tempo anche equilibrato e divertente, è “utile” in quanto è bello, ma è utile anche perché provoca la messa in luce dei peggio focolai di integralismo cattolico in Italia.
Non che ce ne fosse molto bisogno. Di sentir parlare prelati ignoranti in televisione se ne han piene le tasche; e quanto all'integralismo che applica la morale cattolica a ogni piega della vita italiana ne abbiamo esempi continui. Eppure Habemus papam dice che c'è speranza, perché le reazioni negative sono poche e sparute.
Di Pontifex già si sapeva. Mai me lo sarei aspettato, invece, da Farinotti (sì, quello del dizionario, il "più grande critico del cinema del mondo", come recita la descrizione del suo fanclub, http://pinofarinotti.blogspot.com) che non conoscevo sotto questo profilo, e che è scivolato in due delle sue peggiori performance critiche: la prima è una critica preventiva, la recensione scritta prima che il film uscisse, un'esibizione funambolica che a posteriori svela tutto il suo ridicolo (il brano dà per scontato che il papa di Moretti abbia problemi con la fede). La seconda tenta di rimediare, impegnandosi altrettanto funambolicamente a convalidare il giudizio morale negativo, travestito nei panni di un assai debole giudizio cinematografico. Farinotti annaspa nel tentativo di dimostrare che l'acqua calda è calda, e cioè che l'intero film sia “inverosimile”, e a poco a poco annega nel suo stesso brodino di cottura.
Invece il film di Moretti ha del miracoloso. Mostra la salute del pubblico e anche di una parte della critica italiana. Ecco il miracolo, anzi la serie di piccoli miracoli:
1. svela che l'ala ignorante dell'integralismo cattolico in Italia è tutto sommato piuttosto debole e rarefatta.
2. quel 'mangiapreti' di Moretti da cui molti si aspettavano che dicesse sul papa qualcosa di sinistra ha invece detto cose poetiche, universali, umane.
3. quelli che si pregustavano un film anticlericale hanno gradito il film nonostante l'iniziale delusione, perché hanno capito.
4. i cattolici hanno gradito il film a meno che avessero farinottiane fette di salame preventive sugli occhi, o fossero militanti di cielle di bassa lega, il che è perfettamente lo stesso (salvo che, se sei ciellino, oltre ad avere le tue fette ne porti una scorta che tenti di appiccicare sugli occhi altrui).
Forse Moretti non prenderà la Palma d'oro, anche perché gliel'han già data per La stanza del figlio, Piccoli certo meriterebbe un premio. Entrambi meritano un grazie. Habemus papam fa scivolare il nostro occhio lentamente e senza retorica fin nelle viscere di un uomo-papa che ci parla del tragico disorientamento rispetto ai ruoli di potere, e del dolore esistenziale che ne consegue, grande e inevitabile, fino all'emozione di un finale che è catarsi, ammissione di debolezza, ma anche affermazione di un valore. Le parole finali, sulla necessità della comprensione, ci lasciano con una sensazione di vuoto bruciante. Eppure non annullano la dimensione positiva del film, che prende equilibrio e forza dalla sua vena ironica e autoironica, con il suo continuo sconfinare fuori dalla realtà e con le sue battute, pronte per diventare altrettanti tormentoni dei mesi a venire, grucce adatte per i momenti di crisi di fronte alla percezione dello scollamento fra il nostro potere – di comprendere e di agire – e l'esercizio incomprensivo, violento e improvvido di chi di potere ne ha tanto.
venerdì 22 aprile 2011
Nube tossica dai campi coltivati. Agricoltori: delinquenti o vittime?
Zitto zitto, piano piano, un giorno di aprile nell'antico borgo di Settala arriva un invisibile ma puzzolente nuvolone. Tossico? Dicono di no, ma di certo è irritante, aggressivo, il nuvolaccio, come un gas lacrimogeno, e arriva quatto quatto sul far della notte. Una notte abbastanza calda perché a Settala ci fosse ancora in giro un po' di gente, e perché molti tenessero le finestre aperte. É subito caos. Qualcuno deve correre in ospedale, la zona est del milanese si mette in allarme. Torna il ricordo di Seveso. Secondo la tradizione, i settalesi han le gambe buone: gambe buone per scappare, questa volta, anche se in mattinata l'allarme rientra e tutti possono tornare a casa, magari per fare i bagagli per Pasqua.
Ma che fa la nostra agricoltura? I coltivatori si son “dimenticati” di coprire il diserbante con uno strato di terra, dicono. Quel diserbante non è mica anche il responsabile dei livelli di atrazina nell'acqua potabile, che di tanto in tanto superano la soglia? Ma c'è qualcuno che analizza le verdure che mangiamo per sapere se anche lì non ci siano magari un po' troppo alachlor, atrazina, cianazina, metolachlor e simazina, insomma, un po' troppe sostanze cancerogene? Sì, boh, a volte. Ma che diserbante si usa da noi? Forse il famigerato Roundup della Monsanto (non sto a spiegarlo qui e ora, ma per me è un po' come dire il nome del diavolo: fate le vostre ricerche su Monsanto, Roundup e Gliphosate)? Non è proprio a Rozzano, vicino a Settala, che pochi anni fa fu chiuso un pozzo dell'impianto idrico per via dell'atrazina? Boh. sì, forse. Ma in città va meglio! Forse. Oppure no. Come credete che manteniamo i marciapiedi e i bordi delle strade liberi dall'erba?
Ma che cosa fa, l'atrazina, oltre a far venire il cancro? Beh, niente di preoccupante: fa diventare ermafroditi i maschi delle rane (studi dell'università di Berkeley: verificate pure, non è una bufala)! Ottimo, più rane = meno zanzare, e finalmente torneranno ad aumentare le simpatiche amiche, dopo che i nuovi fantastici metodi di coltivazione nelle risaie le avevano abbattute (acqua per pochi giorni = le zanzare fanno in tempo a riprodursi, i girini muoiono). Forse anche i maschi degli umani, in futuro. Qualcuno sarà contento, ma potrebbe essere un'evenienza un pochino problematica. Chissà. non scherziamo, pare che la mutazione sessuale nel maschio umano richiedeae 600 volte la dose di atrazina sufficiente nelle rane. Quindi per ora tranquilli, niente pancione, al massimo un po' di tette (ma l'inquinamento da estrogeni si somma all'atrazina, quindi chissà...).
Ma come stanno andando le cose? Da anni ci dicono che l'uso di diserbanti e pesticidi in agricoltura sta diminuendo progressivamente (già, così dicono anche dell'inquinamento atmosferico da autovetture, ma in queste affermazioni generiche la verità è semplicemente “saltata” a piè pari), e in qualche zona sarà anche vero, ma una breve ricerca mi conduce a un documento ufficiale. Pur nella sua difficoltà di lettura e capziosità di linguaggio pseudo-scientifico ci fornisce dati che mostrano invece un ritrovamento crescente di sostanze dannose nelle acque lombarde, per rimanere in zona. Guardate infatti lo studio di Chinaglia e Fiore sul sito www.apat.gov.it. Non guardate le frasi di conclusione, ma i dati! Altri documenti ci dicono che rispetto alla provincia di Milano, Mantova e Varese sono messe peggio e l'Unione Europea ha richiesto la chiusura dei pozzi per almeno 8 località (che vuol dire che otto comuni dovrebbero rimanere del tutto a secco). Poi ci sono le zone e i singoli contadini virtuosi, che qua e là fanno migliorare le cose. Ma, ahimè. È un po' come il nucleare. L'atrazina nell'acqua è il residuo di coltivazioni di parecchi anni fa, ora non la si usa più, ma c'è ancora! Con pochi soldi, pochi ricercatori eseguono monitoraggi sempre parziali della situazione, il che vuol dire che sempre nuove sostanze possono sfuggire ai vecchi parametri, in misura crescente di anno in anno. All'agricoltura si somma la crescente “pressione antropica”, che ha ridotto la Lombardia a una città-regione il cui unico parziale argine sono le montagne. Così si monitora qualcosa, qualcos'altro sfugge, e soprattutto sfuggono le somme, i conti non tornano. E dopo che si è monitorato, che si fa? Si chiude qualche pozzo in più? O...si alza la soglia degli inquinanti ammessi nell'acqua potabile, e il gioco è fatto! Altro che rane ermafrodite: governanti tocchi! Che dire, dunque degli agricoltori, se non che si tratta di una categoria perfettamente integrata in uno scenario di mancanza di vera sensibilità e responsabilità nei confronti dell'ambiente? Vittime dunque dell'ignoranza favorita da un governo furbastro, i contadini, ma rei di condividere l'inerzia sovrana. C'è differenza fra generica sensibilità per i problemi ambientali (= oddio, è uno schifo, che orrore, ma io che ci posso fare?) e autentico, umano senso di responsabilità (= coltivo biologico, vendo o compro biologico, uso meno l'auto, compro prodotti coltivati qua vicino, la smetto con frutta e verdura fuori stagione... come primo passo!). Sono uno di quegli agricoltori che coltivano senza sosta lo stesso campo, un anno mais e l'anno dopo mais, e magari l'anno dopo frumento (fantastica pseudo-rotazione priva di senso!), negli ultimi fazzoletti di terra fra città e impianti industriali, e seguo quasi per bene tutte le linee guida fornite dalla regione e dal consorzio agrario, cioè spargo i fitofarmaci nelle dosi consigliate e poi ci metto sopra lo strato di terra previsto? Sono uno di quegli agricoltori che “non credono nel biologico” senza averci mai provato? Uno di quelli che se hanno a fianco un campo bio, circondato da molte varietà di alberi autoctoni nei filari, di quelli che servono da protezione e da riequilibrio dei parassiti, glieli abbatto perché fanno ombra sul mio campo?
Forse posso invece tornare a fare un mestiere di cui essere orgoglioso, condividere benessere invece che inquinamento, ridare un po' di salute alla mia terra, ricominciare a conoscere il mio campo e le mie piante, accendere il cervello e tornare a svolgere la mia antica funzione di tutela del territorio. Essere, insomma, un vero contadino. Oppure vendere. Ma non a un'immobiliare, grazie.
Ma che fa la nostra agricoltura? I coltivatori si son “dimenticati” di coprire il diserbante con uno strato di terra, dicono. Quel diserbante non è mica anche il responsabile dei livelli di atrazina nell'acqua potabile, che di tanto in tanto superano la soglia? Ma c'è qualcuno che analizza le verdure che mangiamo per sapere se anche lì non ci siano magari un po' troppo alachlor, atrazina, cianazina, metolachlor e simazina, insomma, un po' troppe sostanze cancerogene? Sì, boh, a volte. Ma che diserbante si usa da noi? Forse il famigerato Roundup della Monsanto (non sto a spiegarlo qui e ora, ma per me è un po' come dire il nome del diavolo: fate le vostre ricerche su Monsanto, Roundup e Gliphosate)? Non è proprio a Rozzano, vicino a Settala, che pochi anni fa fu chiuso un pozzo dell'impianto idrico per via dell'atrazina? Boh. sì, forse. Ma in città va meglio! Forse. Oppure no. Come credete che manteniamo i marciapiedi e i bordi delle strade liberi dall'erba?
Ma che cosa fa, l'atrazina, oltre a far venire il cancro? Beh, niente di preoccupante: fa diventare ermafroditi i maschi delle rane (studi dell'università di Berkeley: verificate pure, non è una bufala)! Ottimo, più rane = meno zanzare, e finalmente torneranno ad aumentare le simpatiche amiche, dopo che i nuovi fantastici metodi di coltivazione nelle risaie le avevano abbattute (acqua per pochi giorni = le zanzare fanno in tempo a riprodursi, i girini muoiono). Forse anche i maschi degli umani, in futuro. Qualcuno sarà contento, ma potrebbe essere un'evenienza un pochino problematica. Chissà. non scherziamo, pare che la mutazione sessuale nel maschio umano richiedeae 600 volte la dose di atrazina sufficiente nelle rane. Quindi per ora tranquilli, niente pancione, al massimo un po' di tette (ma l'inquinamento da estrogeni si somma all'atrazina, quindi chissà...).
Ma come stanno andando le cose? Da anni ci dicono che l'uso di diserbanti e pesticidi in agricoltura sta diminuendo progressivamente (già, così dicono anche dell'inquinamento atmosferico da autovetture, ma in queste affermazioni generiche la verità è semplicemente “saltata” a piè pari), e in qualche zona sarà anche vero, ma una breve ricerca mi conduce a un documento ufficiale. Pur nella sua difficoltà di lettura e capziosità di linguaggio pseudo-scientifico ci fornisce dati che mostrano invece un ritrovamento crescente di sostanze dannose nelle acque lombarde, per rimanere in zona. Guardate infatti lo studio di Chinaglia e Fiore sul sito www.apat.gov.it. Non guardate le frasi di conclusione, ma i dati! Altri documenti ci dicono che rispetto alla provincia di Milano, Mantova e Varese sono messe peggio e l'Unione Europea ha richiesto la chiusura dei pozzi per almeno 8 località (che vuol dire che otto comuni dovrebbero rimanere del tutto a secco). Poi ci sono le zone e i singoli contadini virtuosi, che qua e là fanno migliorare le cose. Ma, ahimè. È un po' come il nucleare. L'atrazina nell'acqua è il residuo di coltivazioni di parecchi anni fa, ora non la si usa più, ma c'è ancora! Con pochi soldi, pochi ricercatori eseguono monitoraggi sempre parziali della situazione, il che vuol dire che sempre nuove sostanze possono sfuggire ai vecchi parametri, in misura crescente di anno in anno. All'agricoltura si somma la crescente “pressione antropica”, che ha ridotto la Lombardia a una città-regione il cui unico parziale argine sono le montagne. Così si monitora qualcosa, qualcos'altro sfugge, e soprattutto sfuggono le somme, i conti non tornano. E dopo che si è monitorato, che si fa? Si chiude qualche pozzo in più? O...si alza la soglia degli inquinanti ammessi nell'acqua potabile, e il gioco è fatto! Altro che rane ermafrodite: governanti tocchi! Che dire, dunque degli agricoltori, se non che si tratta di una categoria perfettamente integrata in uno scenario di mancanza di vera sensibilità e responsabilità nei confronti dell'ambiente? Vittime dunque dell'ignoranza favorita da un governo furbastro, i contadini, ma rei di condividere l'inerzia sovrana. C'è differenza fra generica sensibilità per i problemi ambientali (= oddio, è uno schifo, che orrore, ma io che ci posso fare?) e autentico, umano senso di responsabilità (= coltivo biologico, vendo o compro biologico, uso meno l'auto, compro prodotti coltivati qua vicino, la smetto con frutta e verdura fuori stagione... come primo passo!). Sono uno di quegli agricoltori che coltivano senza sosta lo stesso campo, un anno mais e l'anno dopo mais, e magari l'anno dopo frumento (fantastica pseudo-rotazione priva di senso!), negli ultimi fazzoletti di terra fra città e impianti industriali, e seguo quasi per bene tutte le linee guida fornite dalla regione e dal consorzio agrario, cioè spargo i fitofarmaci nelle dosi consigliate e poi ci metto sopra lo strato di terra previsto? Sono uno di quegli agricoltori che “non credono nel biologico” senza averci mai provato? Uno di quelli che se hanno a fianco un campo bio, circondato da molte varietà di alberi autoctoni nei filari, di quelli che servono da protezione e da riequilibrio dei parassiti, glieli abbatto perché fanno ombra sul mio campo?
Forse posso invece tornare a fare un mestiere di cui essere orgoglioso, condividere benessere invece che inquinamento, ridare un po' di salute alla mia terra, ricominciare a conoscere il mio campo e le mie piante, accendere il cervello e tornare a svolgere la mia antica funzione di tutela del territorio. Essere, insomma, un vero contadino. Oppure vendere. Ma non a un'immobiliare, grazie.
mercoledì 20 aprile 2011
post magico
se avessi saputo che bastava postare la mia invettiva contro il nucleare perché il governo lo eliminasse dai suoi programmi (per ora), avrei postato prima. Peccato che, come tutti hanno capito, questo provvedimento serva esclusivamente a disincentivare la partecipazione delle persone ai prossimi referendum. Così l'acqua rimarrà in mano ai gestori privati che non hanno alcun interesse ad investire per migliorare la situazione dei nostri acquedotti, o per monitorare la salubrità delle acque che beviamo. Avranno invece molto interesse ad alzare i prezzi, se saranno regimi localmente monopolistici o, se invece la concorrenza sarà più presente, l'avranno a investire in campagne pubblicitarie che permettano loro di imporsi alla nostra attenzione, a noi, quote di mercato: sappiamo già che cosa vuol dire. Proposte via posta, via mail, via telefono, via cellulare, via qualunque infinita rottura di scatole che darà occupazione a nuovi schiavi di nuovi call center il cui ordine non sarà risolvere i nostri problemi, ma tutt'al più invogliarci a cambiare allacciamento. Ma sappiamo bene che il punto principale non è l'acqua, il referendum che non ci vogliono far votare è quello sul legittimo impedimento: se non andremo a votare, chi impedirà loro di continuare a squartare l'Italia secondo la dura legge del (loro) capitale?
martedì 19 aprile 2011
nuovo aggiornamento biblioteche
Vado cercando una rivista di critica d'arte per la mia tesi di dottorato: a Milano è quasi introvabile, presente solo con alcune annate in poche biblioteche. Finalmente scopro che alla biblioteca dell'Umanitaria, benedetta istituzione, ce l'hanno tutta o quasi. Siccome però il loro catalogo non è aggiornato, per sicurezza, telefono.
- Non ce l'abbiamo
- Come, ma risulta da internet!
- Siccome la critica d'arte non fa parte dei nostri temi più specifici, l'abbiamo buttata
- Buttata?
- Buttata (nota di sconforto)
- Perché non regalata?
- Mah, i periodici non interessano a nessuno
Bene, proporrei dunque di usarli come combustibile, la prossima volta!
- Non ce l'abbiamo
- Come, ma risulta da internet!
- Siccome la critica d'arte non fa parte dei nostri temi più specifici, l'abbiamo buttata
- Buttata?
- Buttata (nota di sconforto)
- Perché non regalata?
- Mah, i periodici non interessano a nessuno
Bene, proporrei dunque di usarli come combustibile, la prossima volta!
nucleare: noi come Arianna e Teseo?
La questione nucleare è una cartina di tornasole della funzionalità della politica dal basso, della partecipazione responsabile di noi tutti al nostro destino, insomma, della democrazia.
Ricordate il mito del Minotauro, o la storia di San Giorgio e il Drago? Sacrificare ogni anno fanciulli e fanciulle era il patto, odioso ma giudicato accettabile, che evitava alle popolazioni, governate da re, un pericolo più grande. Non risulta che la gente si opponesse al volere dei loro governanti.
Le implicazioni simboliche di quei racconti sono tante, ma qua interessa solo la questione del giudizio, condiviso dall’autorità politica e dal popolo (ma probabilmente non dalle vittime), di accettabilità del sacrificio. Nei miti come nella realtà presente.
Oggi riteniamo di essere civilizzati perché guerre e sacrifici umani sono lontani da noi nel tempo e/o nello spazio. Intanto viviamo in un complicato e sviluppatissimo comfort, benché a volte un po’ zoppicante e bizzarro nel bilanciamento fra quantità di ricchezze e di apparati tecnologici disponibili e qualità ‘percepita’ della vita.
L’abbiamo scelto: siamo in democrazia. Ma che cosa abbiamo scelto? Siamo sicuri di saperlo? E se il potere fosse in mano nostra, in mano mia, invece che in quelle dei deputati e senatori che mi rappresentano, farei le stesse scelte?
Va bene andare avanti così, o si percepisce un pericolo? Non si sta diffondendo la sensazione che le nostre economie, già in crisi da tempo, stiano barcollando sopra qualcosa di simile alle bolle speculative su cui sono crollate numerose grandi aziende in Italia e nel mondo? Va bene così, o le politiche energetiche dei governi occidentali evidenziano, nella loro pazza corsa al nucleare, la confusione e il panico strisciante dati dalla prospettiva di risultare prima o poi quel che già siamo, cioè più poveri di molti paesi emergenti che detengono maggiori risorse?
È per questo che, sotto sotto, siamo tutti d’accordo nel sacrificare fanciulli e fanciulle al drago?
Non è forse il panico di perdere i propri privilegi che accomuna i politici rei di scelte poco lungimiranti e a volte inumane e noi abbindolati dai numeri del Pil e dalle statistiche sulla crescita industriale? E non è forse la paura che immobilizza molti e li rende acritici e inerti, a volte beati, davanti allo spettacolo squallido di un premier simbolo del maschio italiano che nonostante tutto si diverte, orgoglioso del suo potere?
Forse sì, abbiamo paura, eppure credo che il nucleare evidenzi una frattura fra ciò che apparentemente accetto e ciò che effettivamente sceglierei. Nonostante l’inerzia di molti di noi, credo che ci sia davvero differenza fra ciò che il governo decide e ciò che noi, al loro posto, sapendo tutto quel che c’è da sapere, sceglieremmo.
Il problema del nucleare mette in luce uno stato di sofferenza dei meccanismi della democrazia, che occorre invece rivitalizzare, mostrando attivamente il nostro parere.
Siamo disposti a sacrificare gli innocenti al Minotauro, al drago? Se ci rassicurano sul fatto che teoricamente nessun danno dovrebbe conseguirne per noi e i nostri figli, che c’è una pressoché totale sicurezza, che è un’energia pulita, sembra che noi non chiediamo altro, che ci lasciamo rassicurare, rifiutando i pareri diversi come questioni ideologiche e faziose, e ci teniamo invece i vantaggi, le facili prospettive di ricchezza – o almeno così appaiono.
Ma che cosa riceveremo, precisamente, in cambio? Perché mettere un drago nel nostro giardino? Saremo forse un po’ più ricchi, pagheremo meno la bolletta dell’energia elettrica, diminuirà qualche tassa comunale, saremo meno dipendenti dal petrolio e quindi da altri paesi? Forse.
Ci rassicurano: in Italia non può verificarsi né Chernobil né Fukushima. Ma il nucleare fa male solo in caso di terremoti o tsunami? Per il resto, è pulito e sicuro?
Non c’è modo di sapere se non ci sarà mai un errore umano. Anche se non ci fosse, non c’è modo di evitare i piccoli continui ‘incidenti’ che si verificano nelle centrali esistenti nel mondo, così ordinari da non essere nemmeno considerati tali. Il nucleare produce nel pianeta una radioattività che prima non esisteva, che viene in parte rilasciata nell’ambiente, un giorno dopo l’altro. Ogni organismo contaminato diventa a sua volta un trasmettitore, inclusi i corpi delle persone. Una lattina di carne in scatola ermeticamente chiusa può essere analizzata (con un esame condotto servendosi di minerali radioattivi) per sapere se è stata prodotta prima o dopo lo sgancio della prima bomba atomica: da allora, non c’è più niente che non sia contaminato dal fall out generato dall’impiego del nucleare per guerre, test militari e impieghi civili. Per anni Francia e Stati Uniti hanno ‘provato’ le loro bombe nei deserti o in mezzo al mare. La radiazioni se ne sono andate nell’aria, nell’acqua, nei tessuti animali, e a poco a poco sono state trasportate per il mondo dalle piogge, un’esplosione dopo l’altra, e sono ancora qua con noi. Poi sono arrivati missili, semplici proiettili, piccole atomiche poco visibili diffuse qua e là nelle guerre e anche in oggetti del tutto pacifici. Prodotti anche da noi, giorno dopo giorno.
Che ne è dei materiali che già oggi, negli ospedali, nei laboratori e nelle fabbriche entrano quotidianamente in contatto con le radiazioni? Che ne è delle piccole fughe, piccole contaminazioni che si accumulano già ora nel tempo e nello spazio, sovrapponendosi all’inquinamento atmosferico, alle onde elettromagnetiche, alla chimica che ingeriamo con gli alimenti industriali, con la frutta e la verdura coltivate lungo le autostrade e irrorate con il veleno? Quanto possiamo tirarla ancora, questa corda?
Gli americani, le scorie radioattive, le mettono in un buco in mezzo a un deserto di sale, New Mexico, ma perfino lì c’è dell’umidità, e alle goccioline che poi evaporano, gli atomi instabili affidano i loro magici raggi. Nemmeno il buco in mezzo al deserto è la soluzione, ma al momento è il male minore.
E da noi, invece, che fine fanno le scorie quotidiane e i rifiuti da impianti in dismissione? In teoria, va tutto nei buchi scavati qua e là, ma in pratica, possiamo essere sicuri che non finiscano in discarica com’è accaduto in Brasile, o non siano riciclati in un’altra lavorazione, com’è accaduto in Cina, o siano stoccati in una nave poi affondata in mare, com’è accaduto in Italia? Nel paese delle discariche abusive, della diossina nell’acqua, nella terra, nel latte, nel paese della ‘questione napoletana’, possiamo immaginare che tutto vada con nettezza e precisione in un buco in mezzo al deserto?
Ci sono dei morti. Cancri, leucemie, forse altre malattie, forse anche molte malattie non mortali.
Il numero di correlazione certa dei morti alla radioattività emessa da attività umane negli ultimi 60 anni è ignoto: si sa solo che ci sono stati e ci saranno dei morti. Sul nucleare vige molta incertezza e solo una certezza: qualcuno, prima o poi, muore. Certo, si muore anche per molti altri draghi nella nostra economia. Pattumiera e produzione energetica, industria chimica, trasporto su gomma...
Ma qualcuno in più, col nucleare, lo manderemo, suo malgrado e spesso a sua insaputa, volontariamente e d’accordo con i governanti che abbiamo democraticamente eletto, dritto in bocca al Minotauro.
Forse è ora di ricordarci che possiamo e dobbiamo essere noi, oggi, i nipotini di Arianna, Teseo e Giorgio.
Ricordate il mito del Minotauro, o la storia di San Giorgio e il Drago? Sacrificare ogni anno fanciulli e fanciulle era il patto, odioso ma giudicato accettabile, che evitava alle popolazioni, governate da re, un pericolo più grande. Non risulta che la gente si opponesse al volere dei loro governanti.
Le implicazioni simboliche di quei racconti sono tante, ma qua interessa solo la questione del giudizio, condiviso dall’autorità politica e dal popolo (ma probabilmente non dalle vittime), di accettabilità del sacrificio. Nei miti come nella realtà presente.
Oggi riteniamo di essere civilizzati perché guerre e sacrifici umani sono lontani da noi nel tempo e/o nello spazio. Intanto viviamo in un complicato e sviluppatissimo comfort, benché a volte un po’ zoppicante e bizzarro nel bilanciamento fra quantità di ricchezze e di apparati tecnologici disponibili e qualità ‘percepita’ della vita.
L’abbiamo scelto: siamo in democrazia. Ma che cosa abbiamo scelto? Siamo sicuri di saperlo? E se il potere fosse in mano nostra, in mano mia, invece che in quelle dei deputati e senatori che mi rappresentano, farei le stesse scelte?
Va bene andare avanti così, o si percepisce un pericolo? Non si sta diffondendo la sensazione che le nostre economie, già in crisi da tempo, stiano barcollando sopra qualcosa di simile alle bolle speculative su cui sono crollate numerose grandi aziende in Italia e nel mondo? Va bene così, o le politiche energetiche dei governi occidentali evidenziano, nella loro pazza corsa al nucleare, la confusione e il panico strisciante dati dalla prospettiva di risultare prima o poi quel che già siamo, cioè più poveri di molti paesi emergenti che detengono maggiori risorse?
È per questo che, sotto sotto, siamo tutti d’accordo nel sacrificare fanciulli e fanciulle al drago?
Non è forse il panico di perdere i propri privilegi che accomuna i politici rei di scelte poco lungimiranti e a volte inumane e noi abbindolati dai numeri del Pil e dalle statistiche sulla crescita industriale? E non è forse la paura che immobilizza molti e li rende acritici e inerti, a volte beati, davanti allo spettacolo squallido di un premier simbolo del maschio italiano che nonostante tutto si diverte, orgoglioso del suo potere?
Forse sì, abbiamo paura, eppure credo che il nucleare evidenzi una frattura fra ciò che apparentemente accetto e ciò che effettivamente sceglierei. Nonostante l’inerzia di molti di noi, credo che ci sia davvero differenza fra ciò che il governo decide e ciò che noi, al loro posto, sapendo tutto quel che c’è da sapere, sceglieremmo.
Il problema del nucleare mette in luce uno stato di sofferenza dei meccanismi della democrazia, che occorre invece rivitalizzare, mostrando attivamente il nostro parere.
Siamo disposti a sacrificare gli innocenti al Minotauro, al drago? Se ci rassicurano sul fatto che teoricamente nessun danno dovrebbe conseguirne per noi e i nostri figli, che c’è una pressoché totale sicurezza, che è un’energia pulita, sembra che noi non chiediamo altro, che ci lasciamo rassicurare, rifiutando i pareri diversi come questioni ideologiche e faziose, e ci teniamo invece i vantaggi, le facili prospettive di ricchezza – o almeno così appaiono.
Ma che cosa riceveremo, precisamente, in cambio? Perché mettere un drago nel nostro giardino? Saremo forse un po’ più ricchi, pagheremo meno la bolletta dell’energia elettrica, diminuirà qualche tassa comunale, saremo meno dipendenti dal petrolio e quindi da altri paesi? Forse.
Ci rassicurano: in Italia non può verificarsi né Chernobil né Fukushima. Ma il nucleare fa male solo in caso di terremoti o tsunami? Per il resto, è pulito e sicuro?
Non c’è modo di sapere se non ci sarà mai un errore umano. Anche se non ci fosse, non c’è modo di evitare i piccoli continui ‘incidenti’ che si verificano nelle centrali esistenti nel mondo, così ordinari da non essere nemmeno considerati tali. Il nucleare produce nel pianeta una radioattività che prima non esisteva, che viene in parte rilasciata nell’ambiente, un giorno dopo l’altro. Ogni organismo contaminato diventa a sua volta un trasmettitore, inclusi i corpi delle persone. Una lattina di carne in scatola ermeticamente chiusa può essere analizzata (con un esame condotto servendosi di minerali radioattivi) per sapere se è stata prodotta prima o dopo lo sgancio della prima bomba atomica: da allora, non c’è più niente che non sia contaminato dal fall out generato dall’impiego del nucleare per guerre, test militari e impieghi civili. Per anni Francia e Stati Uniti hanno ‘provato’ le loro bombe nei deserti o in mezzo al mare. La radiazioni se ne sono andate nell’aria, nell’acqua, nei tessuti animali, e a poco a poco sono state trasportate per il mondo dalle piogge, un’esplosione dopo l’altra, e sono ancora qua con noi. Poi sono arrivati missili, semplici proiettili, piccole atomiche poco visibili diffuse qua e là nelle guerre e anche in oggetti del tutto pacifici. Prodotti anche da noi, giorno dopo giorno.
Che ne è dei materiali che già oggi, negli ospedali, nei laboratori e nelle fabbriche entrano quotidianamente in contatto con le radiazioni? Che ne è delle piccole fughe, piccole contaminazioni che si accumulano già ora nel tempo e nello spazio, sovrapponendosi all’inquinamento atmosferico, alle onde elettromagnetiche, alla chimica che ingeriamo con gli alimenti industriali, con la frutta e la verdura coltivate lungo le autostrade e irrorate con il veleno? Quanto possiamo tirarla ancora, questa corda?
Gli americani, le scorie radioattive, le mettono in un buco in mezzo a un deserto di sale, New Mexico, ma perfino lì c’è dell’umidità, e alle goccioline che poi evaporano, gli atomi instabili affidano i loro magici raggi. Nemmeno il buco in mezzo al deserto è la soluzione, ma al momento è il male minore.
E da noi, invece, che fine fanno le scorie quotidiane e i rifiuti da impianti in dismissione? In teoria, va tutto nei buchi scavati qua e là, ma in pratica, possiamo essere sicuri che non finiscano in discarica com’è accaduto in Brasile, o non siano riciclati in un’altra lavorazione, com’è accaduto in Cina, o siano stoccati in una nave poi affondata in mare, com’è accaduto in Italia? Nel paese delle discariche abusive, della diossina nell’acqua, nella terra, nel latte, nel paese della ‘questione napoletana’, possiamo immaginare che tutto vada con nettezza e precisione in un buco in mezzo al deserto?
Ci sono dei morti. Cancri, leucemie, forse altre malattie, forse anche molte malattie non mortali.
Il numero di correlazione certa dei morti alla radioattività emessa da attività umane negli ultimi 60 anni è ignoto: si sa solo che ci sono stati e ci saranno dei morti. Sul nucleare vige molta incertezza e solo una certezza: qualcuno, prima o poi, muore. Certo, si muore anche per molti altri draghi nella nostra economia. Pattumiera e produzione energetica, industria chimica, trasporto su gomma...
Ma qualcuno in più, col nucleare, lo manderemo, suo malgrado e spesso a sua insaputa, volontariamente e d’accordo con i governanti che abbiamo democraticamente eletto, dritto in bocca al Minotauro.
Forse è ora di ricordarci che possiamo e dobbiamo essere noi, oggi, i nipotini di Arianna, Teseo e Giorgio.
lunedì 21 marzo 2011
libro di Ragghianti sulla tutela
Ho deciso di promuovere questo libro che ho curato insieme a Emanuele Pellegrini, storico dell'arte e della critica d'arte e primo ideatore del progetto; c'è anche una nota introduttiva di Donata Levi, ordinario dell'Università di Udine e attiva promotrice di iniziative nel campo della tutela. Con questa promozione svelo la mia identità. Del resto non intendevo tenerla nascosta ma semplicemente lasciare che le invettive piovessero da una sorta di anonimato, come accade di solito. Per le invettive, la mia identità non è importante, e nemmeno per questo libro, visto che non l'ho scritto io ma un grande storico dell'arte, antifascista e cittadino responsabile, Carlo Ludovico Ragghianti. Penso che sia importante e interessante anche per verificare con grande chiarezza cinquant'anni di tentativi di difesa dell'ambiente naturale e artistico italiano e cinquant'anni di difficoltà, resistenze, piccoli passi e molti sbagli da parte dei governi italiani.
Da questo libro, dalle sue dirette testimonianze e battaglie, si capisce molto bene come sono andate le cose e da che cosa deriva parte dell'attuale situazione. Non è una storia della tutela ma ci sono le tappe, le commissioni parlamentari, le leggi sbagliate, il fallimento dell'istituzione del ministero, e soprattutto la combattività, nonostante tutto, di un cittadino nel vero senso della parola e dei tanti che lui e altri seppero sensibilizzare.
Il volume, Carlo Ludovico Ragghianti. Il valore del patrimonio culturale. Scritti dal 1935 al 1987 raccoglie una selezione degli scritti di Ragghianti, antifascista e storico dell'arte, sulla tutela urbanistica, artistica e paesaggistica, scritti fra il 1935 e la sua morte, ed è già in distribuzione nelle principali librerie o acquistabile con lo sconto del 15% direttamente dal sito (e costa davvero poco). Lo trovate online al sito www.felicieditore.it
Da questo libro, dalle sue dirette testimonianze e battaglie, si capisce molto bene come sono andate le cose e da che cosa deriva parte dell'attuale situazione. Non è una storia della tutela ma ci sono le tappe, le commissioni parlamentari, le leggi sbagliate, il fallimento dell'istituzione del ministero, e soprattutto la combattività, nonostante tutto, di un cittadino nel vero senso della parola e dei tanti che lui e altri seppero sensibilizzare.
Il volume, Carlo Ludovico Ragghianti. Il valore del patrimonio culturale. Scritti dal 1935 al 1987 raccoglie una selezione degli scritti di Ragghianti, antifascista e storico dell'arte, sulla tutela urbanistica, artistica e paesaggistica, scritti fra il 1935 e la sua morte, ed è già in distribuzione nelle principali librerie o acquistabile con lo sconto del 15% direttamente dal sito (e costa davvero poco). Lo trovate online al sito www.felicieditore.it
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