giovedì 28 agosto 2008

Biscotti biologici e senza grassi animali?!

L’invettiva di oggi sedimenta nel cassetto delle arrabbiature da lungo tempo, ed è molto semplice. Non è rivolta solo al mondo del bio, ma poiché è quello che appare come il paradiso della salute e dell’equità, s'indirizza soprattutto contro una certa tendenza a mascherare da prodotti sani bio-eco-equo-compatibili anche cosacce che di poco differiscono da quelle del supermercato.

Mi atterrò qui all’argomento salute.

Chi prova a mettere piede in un costoso negozio biologico (nessuna polemica: però io consiglio a chi non sprizza danari dalle orecchie di saltarli e andare direttamente dai produttori, aderendo a un GAS della propria zona: molto più utile e istruttivo), qualora voglia dei biscotti o crackers o merendine, si troverà di fronte una vastissima scelta di prodotti propagandati come salutari anche in virtù del loro contenuto in… udite udite… GRASSI VEGETALI! Ora, non dico che codesta dicitura celi il diavolo in persona, ma vi posso assicurare che, quand’anche vi fosse opportunamente apposto un bel NON IDROGENATI, di cibo angelico comunque non si tratta.

Anzitutto la logica: dietro una scritta così generica di certo non si nasconde olio d’oliva extravergine, ma nemmeno di girasoli o di mais; qualche volta, forse, di soia. Ma al 99% si tratta di oli di palma e di cocco. Queste sostanze, di scarso odore e sapore, molto viscose, sono l’ultima scoperta della pasticceria industriale e purtroppo anche artigianale. Si lavorano facilmente, con ottimi risultati, e ovviamente COSTANO POCO (a chi produce il biscotto, s’intende).
Presentano però qualche piccolo inconveniente. Il nonno ha il colesterolo alto e volete praticargli l’EUTANASIA di nascosto? Regalategli tanti bei biscottini, e vederete che entro qualche mese ce la fate. Esagero? Non so, non intendo esprimere pareri scientifici, cercate su internet, ma ne ho letto abbastanza per sapere che questi grassi vegetali non solo sono saturi, ma sono anche molto peggiori del burro, data la loro tendenza ad aggrapparsi affettuosamente alle pareti delle arterie e a invitare all’ammucchiata tutte le altre molecole di grasso che casualmente passano di lì, formando a quanto pare dei bei sostanziosi depositi di colesterolo di quello cattivo – sapete, no, che c’è anche quello buono?

Viva il burro e il colesterolo buono, viva i grassi dichiarati uno per uno in etichetta.
Palma e cocco li preferivo nel sapone!

Un abbraccio burroso a tutt*

venerdì 22 agosto 2008

autostrade del nostro mondo

Riporto l’invettiva del mio amico trnql, atterrato due mesi fa mentre tornava sul suo pianeta, Bradicin, e ben presto ripartito. Prima di andarsene, mi ha affidato questa comunicazione per i terrestri.

Cari amici, la mia esperienza fra voi mi spinge a lasciarvi le mie impressioni di alieno, fatene ciò che volete. Stavo compiendo una missione quando per un imprevisto mi trovai nell’orbita terrestre, e decisi di avvicinarmi con cautela per dare un’occhiata. Scesi verso un punto del globo dove era notte fonda e sorvolai per un po’ una città.
Mi accorsi, troppo tardi, che intorno a questa si levavano numerose colonne di spesso fumo e finii per incapparvi. In seguito mi fu spiegato che i terrestri impegnati in attività produttive rilasciano i fumi delle lavorazioni a notte fonda per non fare una cattiva impressione sugli altri.

Purtroppo avevo anche un problema al radar, molto sensibile all’inquinamento elettromagnetico che c’è da voi, così persi del tutto il controllo della mia navetta. Recuperata all’ultimo momento la visibilità, improvvisai un atterraggio di emergenza su una pista che fortunatamente si trovava proprio lì accanto.

Ma quale orrore! Mentre atterravo mi sfrecciò di fianco ad altissima velocità un piccolo mezzo di trasporto su ruote, poi un altro un po’ più grande, poi un altro ancora più grande: forse spaventati o spinti dallo spostamento d’aria avvertito (non potevano vedermi per via del mio scudo invisibile) i tre si scontrarono e ne seguì un orribile massacro di lamiere e carni. Non potei far niente per loro, i veicoli si accartocciarono sui loro corpi per poi incendiarsi e i loro occupanti, legati con una piccola cintura, non avevano fatto in tempo a saltar fuori, data la velocità della corsa e la violenza dell’impatto. Cose dell’altro mondo.

Finii per capire che non si trattava di una pista di atteraggio, ma non comprendevo esattamente la natura di quel lungo nastro d’asfalto.
Il giorno dopo, in attesa che il computer di bordo riparasse i sistemi, feci un giro con la mia bolla mobile. Ero ancora sotto choc. Mi bastarono pochi minuti per rendermi conto della follia locomotoria che mi circondava. Da noi non si utilizzano mezzi così veloci per spostamenti di superficie. Noi camminiamo molto, utilizziamo cicli di vario genere e disponiamo di trasporti su rotaia per gli spostamenti più lunghi. Ma sulla terra sembra regnare un ritmo di spostamento forsennato e incredibilmente disseminato.

Osservando, compresi che, benchè la cosa paia del tutto incredibile nella sua assurdità antieconomica e sconcertante per i panorami emotivi e psicologici che suggerisce, probabilmente ogni singolo terrestre possiede un autoveicolo di sua proprietà. Inoltre queste navette su ruota viaggiano senza alcuna protezione, libere di sterzare a proprio piacimento, senza binari, con la sola restrizione delle complicate e numerosissime reti di piste asfaltate, un vero pazzesco groviglio che sembra circondare ogni cosa.

Come proiettili impazziti, i veicoli terrestri girano senza sosta in tutte le direzioni, ovunque, a velocità diseguali, e quel che è assolutamente strabiliante è che ciò avviene nonostante l’evidente coincidenza massiccia dei loro spostamenti: vanno in enormi, allungatissimi gruppi nelle stesse direzioni, negli stessi orari! I veicoletti sono una tale quantità che in molti casi rallentano o si fermano perché non trovano superficie sufficiente per scorrere; in più nelle città molte piste sono affiancate per chilometri da due cordoni di mezzi fermi, pronti a partire: ce ne sono più di uno per porta! Trovandosi tutti allo stesso livello, finiscono per fagocitare spazi qua e là, e quando poi si mettono in moto devono continuamente fermare la loro isterica corsa per lasciar passare quelli che incrociano, con gli errori e le confusioni che si possono ben immaginare.

Ascoltando le emittenti radiotelevisive terrestri ho riscontrato un'alta presenza di discorsi intorno a difficoltà di approvvigionamento e distribuzione dell’energia: ma certo! Come si può pensare di non averne, dovendo approvvigionare ogni giorno ogni singolo terrestre per spostarlo a destra e a sinistra in un suo personale mezzo di trasporto!
Per questo ho deciso di lasciarvi un prospetto dettagliato con tutte le indicazioni tecniche ed economiche relative al nostro sistema di trasporto pubblico integrato, che collega ogni punto del nostro pianeta in modo davvero efficiente. I nostri trenini fotovoltaici a cremagliera vanno tutti a velocità costante (40 km orari per i locali, 80 per le lunghe distanze) e sono composti da sottounità che raccolgono gli abitanti o le merci delle singole aree per poi agganciarsi alle unità maggiori. Solo nel caso di abitanti molto isolati esistono anche microunità che vengono a loro volta integrate nel treno principale.

Siamo abituati a questa che voi chiamereste lentezza, ripagati forse da puntualità, sicurezza, pulizia ed economia del mezzo, confortevole e utile alla socializzazione, ordinato e funzionale, capace di assumere la dimensione richiesta dal flusso reale di bradiciniani e di merci momento per momento. Se proprio abbiamo fretta, abbiamo i nostri velivoli, ma la vita quotidiana è regolata da un passo tranquillo, e chi desidera esprimersi nella velocità può farlo utilizzando numerosi veicoli diversi negli appositi stadi sportivi. La produzione dei trenini non arricchisce nessuno perchè arricchisce tutti, non cresce né descresce: il numero del personale impiegato nella produzione è costante, dato che si tratta semplicemente di fare manutenzione e rigenerare o talvolta sostituire i pezzi che invecchiano. Inoltre, i nostri trenini possono raggiungere le velocità stabilite dalle leggi, non possono superarle! Vi sembra strano? Se sì, fatevi delle domande.

Noi di Bradicin eviteremo d’ora in poi di sorvolare la vostra superficie, a maggior ragione di atterrarvi. Temiamo per la nostra sicurezza, ma soprattutto per voi: il vostro sistema rischia di distruggervi, economicamente e psicologicamente: il rancore interpersonale potrebbe continuare a crescere, se mantenete la proprietà individuale e diffusa di mezzi così veloci e pericolosi, come piccole potenti armi da guerra personali. Dal più pofondo del mio cuore di bradiciniano, vi auguro di trovare le sinergie per smantellare col tempo il costoso, conflittuale e sì, ridicolo, sistema di trasporto terrestre.

mercoledì 20 agosto 2008

Contro l’uomo in giacca e cravatta: una proposta

Non ho niente contro la giacca e la cravatta, benchè trovi tutto sommato un po’ limitato e in parte ridicolo l’abbigliamento maschile nel suo complesso. Non a caso la moda e le invenzioni un po’ bizzarre degli stilisti tendono negli ultimi anni a femminilizzarlo e a movimentare un po’ il suo guardaroba con forme ibride, ma con obiettivi poco chiari e risultati deludenti.

Sono per strada e vedo due gruppi di maschi che si sfiorano, camminando in direzioni opposte. Gli uni in giacca e cravatta, età intorno ai trenta. Gli altri in jeans e maglietta, età intorno ai venti. I secondi si girano e commentano: ma guarda quelli come son conciati. A chissà quanti questo commento parrà fuori luogo, ma non a me. La divisa scura di giacca e cravatta è molto di più di un vestito.

È il classico abito che sta all’origine del detto del monaco. È carica di simboli e di emotività. A seconda di chi la porta, gronda ingenuità, desideri, speranze, aspettative, certezze, presunzione, sicumera, disprezzo, autorità, delirio di onnipotenza. Questo tutti lo recepiscono facilmente. Si capisce in fretta che cosa c’è dietro, qual è il livello di potere effettivamente raggiunto dal corpo che indossa la divisa. Si capisce se calza con naturalezza, quindi dentro c’è un padrone (senza giudizio: può essere un padrone che spadroneggia oppure un uomo gentile e padrone di sé) se invece tira qua e là, addosso a un servo in cerca di fortuna.

Ma ciò che detesto della divisa è che, una volta acquisita la naturalezza nel portarla, chi la indossa diventa eticamente invisibile. Non sai più se è un imprenditore onesto o un furbacchione. La maschera si ispessisce, diventa talmente impenetrabile che, man mano che vai avanti negli anni e scopri nefandezze intorno a te, finisci per convincerti che dietro a ogni cravatta ci sia un lestofante. Se è un professore, sicuramente è stato spinto da una cordata di amici. Se amministra la cosa pubblica lo fa per procacciarsi ricchezza. Giacca e cravatta ben portate sono una vetrina noiosa, monotona, troppo diffusa, troppo opaca e danneggia le brave persone che la portano per semplice decenza.

Se non è più il tempo di dare il potere alla classe operaia, bisognerebbe per lo meno trovare il modo di rendere un po’ più elastica, dinamica, flessibile, la posizione del potere dei potenti, così secolarmente abbarbicata ai suoi vecchi e nuovi soggetti, come una muffa delle più tenaci, un lichene indistruttibile, una ruggine che fa tutt’uno col ferro. Si dovrebbe fare in modo che scivoli via più facilmente, intendo in quei particolari e strani casi in cui si tratta di potere immeritato e mal gestito.

Come fare? È colpa di giacca e cravatta, se il potere acquisito non si allontana più da chi lo detiene. Per quante porcherie abbia combinato, la divisa lo protegge. La sua capacità di darsi a vedere sicuro della sua giacca e cravatta lo reintegra continuamente in uno status che non gli compete. Anche se paga la multa e nel migliore dei casi perde il posto di sindaco o di deputato o chiude una delle sue società, avrà sempre una via aperta per proseguire nel suo cammino incravattato.

Un’idea: visto che i potenti che sbagliano difficilmente vanno in carcere (tranne pochi capri espiatori che poi scrivono autobiografie) o se ci vanno ne escono presto, pagano multe irrisorie e in men che non si dica si rimettono in piedi, modifichiamo leggermente la divisa, affinchè non abbia più potere.

Obblighiamoli a sostituire la cravatta con un bel fiocco colorato, giallo limone o verde acido, o di tanti colori insieme. Rotondo, gonfio, simile a quelle morbide strane nuvolette di retina colorata che qualcuno usa per fare la doccia. Un vistoso, vivace farfallone, una macchia di colore sul triste gessato, un gioiello di pizzi vaporosi sul colletto inamidato. Buongiorno …professore, salve ehm …assessore, ah, è lei, cavaliere, per un attimo non l’ho riconosciuta! Buffo, no? Guarda quanti ce n’è, fiocco rosso, fiocco viola, che fiocco si mette oggi, avvocato? Su, non si abbatta, è una cura: vedrà che imparerà a non prendersi più così sul serio, come già facciamo noi, e tutto riacquisterà la giusta dimensione. In fondo nessuno la manda nei campi, per quanto anche quella, devo dire fose un’ottima idea, partorita purtroppo insieme ad altre meno buone.
Fra qualche mese, se si comporta bene, potrà togliersi anche la giacca, un sano cambiamento di punto di vista, e forse in fondo quel fiocco potrebbe perfino diventare di moda…

Dedicato con umiltà a Virginia Woolf e alla sua memorabile invettiva contro le divise militari (leggi le Tre Ghinee)

lunedì 18 agosto 2008

della televisione

Quand'ero piccol* mi lasciai convincere a finire un piatto di risotto dietro promessa che i cartoni animati sarebbero poi usciti dal televisore per giocare con me. Dopo la delusione, ho smesso di crederci. Ma non tutti hanno avuto questo iter.
Qualcuno è ancora lì che attende che il suo pezzo di realtà fantasticata a poco a poco fuoriesca dal video e si componga in tre dimensioni. Il problema è che accade veramente. Questo è il problema.

La televisione fuoriesce e plasma il paesaggio che abitiamo. Pensavo (pochi anni dopo la faccenda dei cartoni animati) che la pubblicità non avesse tutto quel potere, invece ce l'ha. Pensavo, beata innocenza, che la pubblicità avesse un suo posto accessorio, invece è la base necessaria e pervasiva che intride l'intero palinsesto, poi da lì trasuda, si spande, s'irraggia e dà corpo a spazi, oggetti, personaggi del mondo reale.

Reality non significa che la realtà entra in televisione, ma che la televisione cammina fra noi. L'elenco del televisivo raggiunge ormai lunghezze satellitari: una parola dopo l'altra, la realtà cede, non uccisa come disse Baudrillard, ma plasmata dalla tv. Tv al plasma? no, tv plasmante.

Il punteggio della pallavolo. La pericolosità dello zucchero. La leggerezza dell'acqua in bottiglia. I sogni delle bambine. La colonna sonora nelle nostre case: rumore che ci ricorda che tutto scorre senza mutamenti. L'attenzione per i figli. La durata della capacità di concentrarci. La qualità dei nostri pensieri. La contrattazione con le cose. Il valore, anche affettivo, dello shopping, forse la più frequente occasione di autoaffermazione della persona che è in noi.
Fantastica tv. Illuminante maestra che ci indica la via sbarluccicante di un paradiso terrestre con il codice a barre impresso sopra.

Non stare tutto il tempo davanti alla tv, dice la tv, alzati e cammina, tanto con dolorzut non ti accorgerai nemmeno di essere già morto, e con eternosniff toglierai la puzza per sempre. Acquista una nuova Garlinda triturbo da zero a cento in sei nanosecondi, così, fra monti urbani e scogliere tangenziali, raggiungerai la mole maestosa del discount nel tempo di un teletrasporto, e lì potrai rilassarti con un sushi in bocca mentre Garlinda viene lavata.

La televisione, solerte, registra il residuo dei nostri desideri e attaccamenti, li amplifica sulla scena, li trasforma in imperioso valore di riferimento e ci guida così, sicura e costante, nel mare confuso e doloroso della vita. E non è anestesia, non c'inganna, la cara flat-scatola, anzi ogni giorno ci informa sul terribile stato del pianeta, sincera fonte di una completa e veritiera informazione.

Attenta interprete di ciò che siamo e di ciò che necessitiamo, contratta per noi le priorità di acquisto, la scelta della meta delle vacanze, il rinnovamento del nostro parco di tecnologia domestica, gli ingredienti dei biscotti, che cosa fa bene e che cosa fa male, che cosa è utile e che cosa è inutile, che cosa pulisce e che cosa non pulisce più, la forma delle sopracciglia, la linea del pudore, l'accettazione gioconda delle inevitabili regole imposte dalle compagnie telefoniche, l'appetibilità di un sabato al centro commerciale, la necessità di nuovi oggetti, la colpa di alcuni soggetti, chi vince e chi perde lo show politico, il confine della nostra innocenza e del nostro essere vittime, la quantità di problemi che virtualmente ci affliggono e la loro soluzione più immediata: la televisione è il gel miracoloso che, anche in mancanza di amore, responsabilità e attenzione, incolla i pezzi della famiglia bisognosa di aiuto e tutte le famiglie fra loro, sopprime i sintomi negativi, attutisce i dubbi, zittisce i conflitti.

Sintomo: stato del nostro sentire che ci rivela un problema al momento, altrimenti, nascosto.

Un tempo il cliente aveva sempre ragione, oggi il cliente è divenuto pubblico televisivo. Il che non sarebbe così grave, se non fosse per la nostra dannata tendenza a rinunciare a pensare, a voler assomigliare a qualcun altro. Eccolo, il pubblico televisivo, è lì dentro, nella televisione, e da lì è uscito, mentre mangiavamo un risotto, e senza accorgerci di niente, come nell'invasione degli ultracorpi, non eravamo più noi, ma loro! Proveniamo dalla casa, dall'isola, dalla poltrona dell'ospite. Le loro lacrime sono le nostre, la loro voglia di fortuna è la nostra. Io non penso più il mio pensiero, ma il mio pensiero mi pensa, ed è un pensiero televisivo.

Non spegnerò la televisione. Non butterò l'arma dove non posso vederla. Continuerò a osservarla, a vederne uscire i pensieri da pensare, le bambine rosa, i bambini celesti, le cinquenni con il due pezzi, i cinquenni sedati dal nintendo, i ragazzi che s'incontrano all'iper, le mogli che aspettano il loro turno per il suv, i mariti che aspettano il loro turno per stare finalmente davanti a lei, la televisione, caro magico monitor da cui escono le belle donne dai seni perfetti, le partite di cui parlare, gli arbitri contro cui esprimere proteste liberatorie, i pensieri da pensare...

domenica 17 agosto 2008

presentazione e brioche

Buongiorno, sono Brontolin: un rimedio tradizionale, di un genere non omeopatico ma ben collaudato, che dà sollievo in caso di rabbia inespressa.

Come invettiva inaugurale sceglierò una delle mie recriminazioni storiche, con cui ho stuzzicato piacevolmente baristi e bariste: BASTA alle orribili brioche surgelate, cotte con mal riposto orgoglio nel casalingo fornetto del bar!

Quand'anche non siano crude o carbonizzate, nè si presentino alla mandibola come un blob viscido fuori e colloso dentro, quando cioè siano cotte a puntino e lasciate raffreddare per bene, rimangono sempre delle orribili cose industriali dai dubbi ingredienti, scarso sapore, triste consistenza e profumo omologato.
E fa nulla se si imbellettano con i nomi di tre pie pasticcere o altri marchi blasonati e ben pubblicizzati: la maldestra facciata da antico forno di paese cela sempre un megaimpianto di periferia, di quelli che ammorbano interi isolati con un perpetuo stagnare di vapore zuccherino.

Se in un momento di inconsapevolezza le scegliete farcite, potete scommettere che si tratta di un composto di emulsionanti-aromatizzanti-conservanti e altre faccende che con l'alimentazione non si sa bene che c'entrino.
Se, costretti da un calo di zuccheri e in mancanza di migliori alternative, scegliete una di quelle vuote, sperate anzitutto che non contengano "grassi vegetali" e tanto meno "idrogenati", poi evitate di pensare, fate un bel respiro e masticate con serenità, infine guardate il-la barista e comunicategli che sarebbe bello un giorno entrare nel suo bar e assaporare una brioche fatta di farina, zucchero, uova, burro e lievito, cotta in un forno a legna e recapitata giornalmente dal panettiere o pasticcere più vicino, invece di quel fagotto tenuto insieme dai collanti del business chimico e trasportato per centinaia di chilometri insieme a migliaia di gemelli in simpatici tir refrigerati!