mercoledì 31 dicembre 2008

autogrill

Tre euro un arancino pallido; quattro euro un panino caldo fuori e gelato dentro; quattro euro una fetta di pizza gommosa e sbrodolante un sugo di media qualità (e cara grazia!). Ho l’abitudine, e non per risparmio, di scansare la versione più costosa , adorna di avvizzite fette di salamino. Prezzo normale per il cappuccio e la brioche. Ma il cappuccio non arriva all’orlo della non capace tazza, mentre per la brioche vi rimando senza dubbio all’invettiva iniziale.

Per lo meno hai una certezza: per qualche ora il tuo stomaco non si annoierà. Merito soprattutto delle salsette con cui si tenta di coprire il desolante miscuglio di sapori delle materie prime.

Comunque, ora ti senti sazia-o, e hai per lo meno ricordato l’odore della pizza.

Nulla da dire sul servizio: di solito è frettoloso e musone in tutte le catene di questo tipo, ma so bene che è principalmente una conseguenza del cattivo trattamento subito dai dipendenti (saranno poi assunti a tempo indeterminato, o interinali pure loro?), anche se, per la verità, non sono tanto disposta a scusare questo avvilimento diffuso, sia pure sintomo di una freddezza del contesto che non stimola il risveglio di qualità etiche e sociali.

Ma, devo dire, ci sono state anche calde, gradite, splendide eccezioni.

Il fatto è che non si può semplicemente bere un caffè e via, indolore. Sospetto una collusione con i ladri del parcheggio, che così hanno un po’ più di tempo, ma come sapete c’è obbligo di passaggio attraverso il tortuoso itinerario delle specialità regionali offerte dal market più costoso d’Italia. Ottimo per farsi una cultura sulla gastronomia nostrana, buona per le prime domande, quelle facili, de Il Milionario.

Momento di relax e di sano intrattenimento è quello offerto dallo spettacolo del simpatico porcellino di peluche semovente o del cagnolino che dà insistentemente la zampa, nelle versioni rosa, bianco e nero; qui comincia uno spazio di vera formazione socioantropologica sulle tendenze pedagogiche per grandi e piccoli: rassegna completa del giocattolo più paillettoso e kitsch, nonchè della manualistica per l’autoapprendimento di tutte le verità dell’esistenza, senza dimenticare le collane di manuali per tutti i software di un sistema già troppo nominato per rinominarvelo qui.

Sorvoliamo sul settore cd e dvd, perché l’offesa al pubblico italiano provoca il disgusto. Fa niente se siamo noi consumatori a determinare, dicono, le scelte della distribuzione.

Alla fine, si esce. Ma che si ritrova? Se nessuna portiera è stata scassinata, un veicolo rovente l'estate; meglio l'inverno, ma nulla giustifica la desertica, inospitale accoglienza che queste strutture riservano ai viaggiatori. Se c'è un albero, è un fuscello; se c'è una tettoia, ha all'incirca la profondità del parasole in cui di solito infiliamo il biglietto dell'autostrada.

Nei prezzi, per la verità, c’è chi batte cotal negozio, a pari qualità: si tratta del supermarket della Stazione Centrale di Milano (bottiglietta d’acqua piccola, indispensabile per il viaggiatore: circa euro 1,50). Sì, avete capito bene, è un supermarket, non il carrellino che ambula in testa ai binari. Ma bisognerà verificare i cambiamenti apportati dalla recentissima ristrutturazione della Stazione (una delle cento d'Italia che con molto battage hano ricevuto il lifting), che da quanto ho visto ha aperto sinuosi scaloni mobili, corridoi e uffici là dove un tempo era il nulla, grandiosamente spalancato dal gusto fascista.

Mi viene in mente poi un cappuccino bevuto di recente a Sorrento, in uno dei bar più anonimi e privi di classe della cittadina, pagato euro 2,00. E disgustosamente lattiginoso, per di più. Potrei scrivere un’invettiva solo su quello, se non altro per liberarmi dell’odiosa sensazione di beffe oltre al danno, provata quando la signorina del bancone, nel prendere il denaro, mi lanciò un dentatissimo “tutto bene?”. Ma come poteva pensare che andasse tutto bene, quella lì? Imparasse a fare un capuccino, mannaggia.

Che dire? Di questa decadenza si accusa ancora il capitalismo, la smania di arricchirsi possibilmente imitando il sistema americano e la sua standardizzazione. Ma sarà così? O sarà semplice vecchia rassicurante avidità eretta a sistema? Vi do solo un saggio della mia esperienza americana.

Ero sulla 491, oppure sulla 64, insomma in New Mexico, nel bel mezzo di un deserto dove occorre avere il serbatoio ben pieno perché i distributori scarseggiano. Finalmente giungiamo a una casetta, circondata da camion, cosa che da noi si intende di solito come garanzia di buona cucina. Il fatto è che lì non c’era scelta, monopolio assoluto, peggio dell’autogrill.

Quindi entriamo, affamati, dato che le scorte di frutta, formaggio, avocado e pane di pasta acida erano terminate da tempo; che delizia! Ci accoglie un colibrì, intento come spesso accade da quelle parti a succhiar del miele da un aggeggio appeso lì fuori. Dentro, ci fanno accomodare due graziose e grinzose signore che ci servono i loro home-made dishes, semplici e gustosi – niente ketchup, niente french chips.

Qualche giorno dopo, credo in Colorado, in un altrimenti stereotipato paesetto reso ricco dalla pratica del rafting, prendiamo il tè nella casa-caffè di altre simpatiche sciure, assaporando deliziose torte fatte con mani memori di ricette nonnesche. Questo è l’aspetto magico degli Stati Uniti: sono la culla dell’omologazione santificata, ma anche la culla della diversità insopprimibile, di qualcosa che ha un sapore grato di creatività e non di rado anarchia, altrimenti detta libertà.

A meno che fossimo incappati per caso e due volte di fila nella tipica intrapredenza delle coppie lesbiche un po’ annoiate…

giovedì 30 ottobre 2008

registi americani di sinistra

Into the Wild: come dice Crespi dell'Unità pur non essendo un capolavoro, può far innamorare. Ma è giusto innamorarsi di simili film - e di simili personaggi? Brontolin tenterà ora di fornire un antidoto per chi sia stato vittima del maleficio, con la speranza che sia non tanto letta come un'invettiva contro Sean Penn, quanto come un modesto contributo a chiarire meglio che non sempre onestà e coerenza sono presenti in tanti film che hanno il difetto di abbindolare facilmente. E tanto peggio se il regista dichiara di avere una missione morale e politica!

il problema, con questo film, è che si tende a giudicarlo attraverso l'idea che ci si forma del personaggio. Invece bisognerebbe andare oltre il personaggio, che può essere capito solo se si capisce il film!
ecco, in sintesi, il percorso creativo che ha stratificato tre costruzioni diverse dello stesso mito americano, producendo Into the Wild (taccio molti dettagli, naturalmente).

1) prima Christopher McCandless, nutrito di letture come Tolstoj, London e Thoreau, straccia la propria identità per costruirsene una nuova, con tante buone intenzioni e coraggio, ma anche con tanta polpa di stereotipi. infatti, ben oltre i viaggi solitari degli scrittori beat, alexander supertramp veleggia sicuro verso un autoconsacrazione-fusione con l'immensità e libertà della natura, rispetto alla quale forse la morte non era il finale previsto. Forse sotto sotto prevedeva di tornare a casa e diventare un famoso scrittore, a partire dalla propria autobiografia romanzata: non per niente scriveva un diario in terza persona!
perchè la natura che Alexander ha in mente non è neutra, è quella appresa attraverso strati e strati di accumulazioni culturali, è la wilderness americana, pericolosa, affascinante, ma anche e soprattutto legata a un senso mistico di predestinazione alle grandi cose che tocca tutti gli americani, proprio perchè gli americani sono identificati da questo:
gli americani non sono il popolo eletto perchè vi deve nascere il messia. sono il popolo eletto perchè hanno costruito la propria identità attraverso il viaggio e la conquista della natura selvaggia, hanno sfidato l'immensità degli spazi, hanno coabitato con l'ambiente più ostile, vi hanno stabilito la propria piccola cellula abitativa, e nella solitudine hanno trovato il proprio orgoglio e la base del proprio diritto di proprietà (e di espansione ad libitum).

2) per secondo arriva Jon Krakauer, l'alpinista-giornalista, che unisce il mito al borsellino, l'utile al dilettevole, e come un vero attore addestrato sul metodo Stanislavski s'immedesima, ripercorre le tappe di Alexander, ricostruisce il suo cammino, incontra le stesse persone, succhia le stesse visioni, patisce lo stesso gelo e infine scrive un best-seller!

3) last but not least, ecco Sean Penn, che stanislavski ce l'ha nel curriculum, eccolo leggere il libro, rifare la stessa cosa, costringere anche la troupe a scalare collinette con tutta l'attrezzatura e ricreare visivamente il mito, romantico-americano mito dell'uomo che, diversamente dal romantico europeo, nel confrontarsi con l'immenso, non scompare né resta minuscolo testimone, ma a sua volta giganteggia, conquista le altezze dei monti e soprattutto le profondità del proprio spirito e le mitizza, le mostra come modello da imitare, santo e martire di un'idea di libertà individuale che seppur sconfitta sul piano materiale - perchè di sconfitta si dovrebbe trattare - invita a seguirlo, ciascuno nel suo piccolo, ciascuno a costruire a modo suo il proprio mito di libertà per poi ...consacrarlo alla famiglia. Come ben s'intuisce dalla chiusa.

non per niente, come giustamente ha notato paola, un film che dovrebbe trattare di un rifiuto, di un sottrarsi al benessere e alle "cose". è fatto invece con uno stile ricco, patinato, alla National Geographic, uno stile che assomiglia di più alla provenienza di Cristopher, che alle peregrinazioni di uno straccione!

ma come fanno quelli di Report, voglio ora aprire anche una piccola finestra di positività elogiando un altro film fatto da registi e attori "impegnati". apparentemente stupido e privo di significato, è in realtà un film cui non difettano quelle qualità di onestà e coerenza che Into the Wild non contempla, e che infatti è assai più riuscito, nella mia modesta opinione.

i due perfidi Coen, fratelli quasi siamesi continuano ad alternare film più intensi e film più leggeri: con Burn after reading - A prova di spia si sapeva già che toccava alla leggerezza. Mai peraltro esente da ironia e sarcasmo: il focus è l'assurda piccineria scombinata e ridicola delle motivazioni e delle scelte che guidano i personaggi in gioco.

E poichè i Coen, a differenza di Sean Penn e di molti altri, sono di quelli capaci di adeguare stile e struttura a ciò che vien narrato, o meglio ne fan tutt'uno, ne viene fuori un film che, per l'appunto, gioco scombinato e ridicolo è.

Ce lo conferma genialmente la chiusura.

Non è il capo della CIA a parlare con il suo vice, ma sono gli stessi Coen, che si pongono l'un l'altro la fatale e qui spassosa domanda. Una domanda che - fuor dalla battuta - molti dovrebbero porsi un po' più spesso, con la stessa onestà nella risposta.

Che cosa abbiamo capito da tutto questo?
Abbiamo capito che non lo dobbiamo fare più.
Già, solo che non sappiamo che cosa abbiamo fatto!

mercoledì 1 ottobre 2008

aggiornamento sondaggio brioche e socialità

Terminato il primo sondaggio, mie/i care/i, il risultato è il seguente: solo quattro votanti (eppure il traffico qua sopra comincia lentamente a infittirsi); vincono i sì alla crociata antibrioche surgelate con il 100%. Solo il 50%, tuttavia, la pensa come crociata costruttiva, cioè si immagina come soggetto attivo con un suo pur modesto potere di intervento, fosse anche "solo" il chiacchierare con il barista del prodotto che smercia, magari col risultato di fare una colazione che nutre sé e gli astanti di energia, informazione, contatto e scambio. Non che per me sia facile, sono timid* con gli estranei e anche quelli meno estranei, ma penso sia importante fare lo sforzo del primo gradino, dopo il terreno si spiana e si aprono mattinate che iniziano con un colore diverso dal solito.

Contro chi dunque, l'invettiva odierna? Ma contro mutismo e rassegnazione, carissime/i, contro la timidezza come scusa, il poco tempo come scusa, la paura del conflitto come scusa. Per non cambiare mai.

Buona giornata e buone chiacchiere.

lunedì 29 settembre 2008

iperfantasmi

Non m’intendo un granché di architettura, ma ho l’impressione che i progetti per centri commerciali, outlet e quant’altro seguano criteri per lo meno surreali.

Pare che l’accettazione di un progetto dipenda da alcuni criteri fissi e da altri variabili a seconda della posizione geografica. Gli architetti si trovano davanti un’area, a volte molto vasta, e una richiesta basata su un'esigenza funzionale: dato il rispetto per quei pochi criteri, possono sbizzarrirsi - tanto chi ne capisce fra i vari amministratori che devono dare l’ok - anche se poi non fanno che scopiazzarsi.

Fissi: risparmio (non significa che vince il progetto più economico, ma quello che dichiara più risparmio – non si sa bene rispetto a che cosa).
Variabili: interessi delle parti e qualità dell’integrazione nell’ambiente circostante.

Sugli interessi delle parti lascio le invettive a sociologi, politici, economisti e comuni cittadini.
Sull’ultimo fattore, invece, vorrei esprimere il mio personale disappunto.
Se il progetto viene realizzato in città, l’integrazione dipenderà da volatili fattori di coerenza con la storia culturale, architettonica e urbanistica di quella città.

Ciò significa che, se costruisco per esempio a Milano, sarò favorito se uso un bel po’ di mattone rosso, qualche profilo di facciata a capanna, oculi rotondi e se proprio vogliamo fare i raffinati la distruzione-recupero di frammenti di un edificio preesistente. Guarda caso criteri analoghi varranno anche a Torino... ma, sorpresa, non sembrano molto diversi in molte altre aree d'Italia e d'Europa. Insomma, tutti questi sforzi per localizzare l'emblema della globalizzazione sembrano destinati a fallire: strano!

Caso: lo spazio urbano è fitto di altri edifici e ristretto. Posso scegliere fra due opzioni: progetto poco visibile, di basso profilo, che non scontenta nessuno. Progetto “audace”, molto visibile, che si innesta solitamente con una forma geometrica semplice e materiali vistosi in un contesto che ne viene così spezzato ed eventualmente esaltato per contrasto. Quindi, se c’è un’amministrazione di destra propongo il primo, se di sinistra il secondo.
Pertanto: se c'è la destra, farò uno scatolone rosonato coperto in klinker simil-cotto, la cui foggia non offenda la skyline - ché mica sono Zaha o Daniel. Se invece c'è - ma questo sarà a lungo difficile - una sinistra molto progressista, proprorrò liberamente - entro il budget - superfici ondulate, labirinti a più livelli, corridoi biomorfi e vistosi tetti coperti di pannelli fotovoltaici, ma inserendo al centro la vecchia ciminiera restaurata.

Tuttavia, a fronte di progetti di grandi architetti che promuovono la bellezza nel nuovo e nel bizzarro, se non sono uno di loro, devo ricordarmi che oggi prevale la tendenza a premiare in ogni caso il basso profilo, per lo meno in città, dove è facile offendere qualcuno.

In periferia e in campagna, il discorso cambia. L’importante è capire se ci troviamo appunto in periferia o in campagna. Ciò non dipende dalla vicinanza di una grande città. Città, campagna e periferia si alternano ovunque a macchia di leopardo. Un centro commerciale può essere costruito ad esempio alla periferia di Gorgonzola. Se ci sono un po’ di capannoni industriali, capannoni-negozi e capannoni-ristoranti uno dietro l’altro lungo un asse viario, siamo in periferia.
Se mi trovo in campagna, magari una campagna di lussuose seconde case, il principio del rispetto del territorio e delle sue tradizioni diventa stringente. Poniamo di costruire un'iperqualcosa in Toscana, terra dei più antichi decreti urbanistici restrittivi che ha portato la piazza di Siena ad essere fra le prime tutelate: tuttora vale il criterio delle tendine marroni per tutti, compreso Mac Donald.
In codesta regione, proporrò anzitutto rivestimenti di pregio, colori mimetici, basso "impatto ambientale". Dovrò aver cura particolare per la piantumazione in filari di sapore carducciano, dove passeri e rusignoli possano nidificare. Ma se mi trovo, nella stessa regione, in periferia, dovrò proporre un recupero e valorizzazione della cultura del territorio, con rivestimenti di simil-pregio, colori un po' meno mimetici e una piazzetta dove le persone possano incontrarsi come una volta.

Se invece mi trovo, poniamo, nella periferia di Roma, avrò bisogno di forme e materiali innovativi, che riqualificano le aree di edilizia popolare con un innesto vistoso, futuro punto di riferimento per migliaia di cittadini in cerca di novità. Potrò ad esempio basare l'attrattiva del luogo sui rivestimenti colorati. A mo' di esempio cito con qualche libertà da un sito: "Il visitatore è infatti sorpreso da un disegno articolato che si sviluppa sulla pavimentazione: una stella nera a 8 punte, in nero cerchiata da una fascia in giallo. La composizione, di 5 metri e mezzo di diametro, circonda il pilastro collocato a metà galleria. Particolarmente suggestivo l'accostamento dei colori, nonché l'andamento ondulato del disegno, i cui diversi elementi sembrano giocare muovendosi in direzioni diverse. Questo alternarsi di linee, tratti e colori si ritrova anche al piano terra: un'altra stella a 8 punte e 3 grandi soli a 24 punte, di circa 6 metri di diametro, anch'essi chiusi da una fascia circolare in giallo. Tutta la restante pavimentazione è invece in simil travertino, capace di creare un'atmosfera luminosa ed elegante"... tutti a giocare con i disegni e i colori dei pavimenti, dunque, utilissimi nell'indicarci visivamente i percorsi più funzionali per accedere ai vari negozi! Meno utili, nella ripetizione di stelle o rose o cerchi concentrici che siano, per aiutarci nel non facile orientamento interno (per non parlare dell'orientamento nel parcheggio). Ma pazienza.

Un caso a se stante è quello della Brianza, una delle zone più devastate dal progresso postbellico: talmente devastata, che la presenza di qualcosa di bello là in mezzo viene immediatamente percepita come un'emergenza monumentale che le Belle Arti proteggono o dovrebbero proteggere, a patto che abbia più di un secolo. Quindi devo anzitutto informarmi su che cosa ci sia di bello lì vicino. Se ad esempio sono nei pressi di una certa cappella con affreschi che raccontano la vita di San Bisbetico, famoso monaco di clausura, chiamerò il mio progetto Orti di San Bisbetico. Poi procederò come segue: se c'è tanto spazio, costruirò un bel centro commerciale come pare a me, liberando la mia immaginazione, tanto il dintorno è talmente stratificato che non c'è materiale tipico usabile - a meno che i soldi me li dia uno della Lega. Inoltre potrò piantare molte decine di alberelli negli spartitraffico vicini, di modo da ottemperare agli oneri di urbanizzazione dando molto ossigeno... alla mia immagine di progettista sensibile al paesaggio e alla natura.

Altro caso particolare è quello della periferia continua legata all'A4, in particolare nella tratta Rho-Venezia. Lungo questo serpentone posso concentrare due tipologie di progetto: l'iperbrutto, tanto non si rovina nulla, e l'ipervistoso, che dall'autostrada lo vedono tutti ed è una bella pubblicità.

Ma la mia invettiva parte da un altro ordine di constatazioni. Il reticolato di strade esistenti in Italia, la struttura degli abitati, la densità di veicoli non sono fatti per accogliere questi iperfunghi cittadelle dello shopping.
Dove ne nasce una nuova, oltre a perdersi una linea dell'orizzonte, si perde un modo di vivere.
Il traffico delle città all'ora di punta viene immediamente replicato intorno al nuovo bubbone. Proliferano anelli concentrici di strade, vere e proprie circonvallazioni con rispettive rotonde. Forse una strategia per svuotarci la testa ancor prima di entrare? Ponti e sottopassi trasformano anche in verticale la percezione del territorio. Cotto o non cotto, qualunque memoria è cancellata. Divenuta un'area off-limits per i pedoni (ad eccezione dell'ampio parcheggio), si trasforma in inferno per chi si trova a passar di lì in auto di sabato o ahimè anche di domenica.

La Torre Velasca non ha colpa, ma la valorizzazione del territorio italiano passa attraverso il profilo che ricorda il vicino maniero.
Il materiale si giostra con poco o nessun significato fra "natura" e "cultura", la forma fra "tradizione" e "innovazione", la dimensione dipende dalla disponibilità di appezzamenti ex agricoli da trasformare in vie di accesso, mentre il risultato fisso è l'implosione del traffico circostante.

Percorro le campagne e ogni settimana vedo aprirsi nuovi baratri nel corpo della terra già offesa da contadini non più affezionati al loro lavoro, o devastata in ogni modo dal trionfo della logistica su gomma. Sembra che non ci sia più un salvabile da salvare. Che se ne faranno i bambini della salvaguardia di un campo vuoto, lì, fra la superstrada e l'ipercosone? Anzi, meglio farlo fuori, potrebbero accamparsi gli zingari. Ma c'è una speranza. Sotto l'iperpiaga c'è una bolla speculativa: sono troppi, troppo vicini uno all'altro. In più qualcuno ricomincia a comprare il latte e il formaggio dal fattore, o si organizza in gruppi d'acquisto solidale. Molti di questi distributori di merci falliranno, mi auguro, e sarà un nuovo orizzonte di archeologia postindustriale, attraversata in notturna, per gioco e per avventura, da migliaia di nomadi a rotelle, o abitata dai pellegrini di domani.

giovedì 18 settembre 2008

contro le bambine















Ma che dico? Perchè mai dovrei inveire contro le bambine? Mai idea più balzana mi è passata per la testa. Forse che le bambine di oggi sono peggiori di quelle di un tempo?
Le cose non cambiano: la retorica dei bei tempi andati non ha alcun significato. Le bambine di oggi sono belle e brave come le bambine di sempre, non meritano un'invettiva ma una celebrazione; sono dolci, carine, socievoli, magari appena un po’ timide. A volte un po’ capricciose, questo sì, solo un po’ più capricciose di com’erano dieci o venti o forse cinquant’anni fa, ma sono cert* che ciò sia dovuto alla maggior disponibilità di cose, null’altro.

In fondo forse sono semplicemente pù volitive, hanno più carattere e le idee più chiare. Parlano prima, è ovvio che chiedano anche prima. Sono più intelligenti; anche più belle. Beh, per essere sincer* dovrei dire che le trovo più attraenti, più affascinanti, più complesse. Hanno sempre un’aria più grande di quello che sono. Si sanno vestire. Si sanno perfino truccare. Sono precoci, questo sì.

Qualcosa in effetti è cambiato, ma sicuramente in meglio. Sanno ballare molto presto, e spesso anche cantare: hanno un gran senso del ritmo. Sanno occupare la scena e attirare gli sguardi (e i riflettori) su di sé. Si può dire che realizzino il loro scopo "naturale" già nei primi anni di vita, un vero trionfo rispetto ad aspettative e tradizioni millenarie: vere donne, fin da piccole.
Del resto, in tutto ciò sono aiutate: non è un caso se le bambine odierne sono così abili a muovere i fianchi e per contro poco inclini a perdersi nei boschi, incontrare lupi cattivi, mangiare crostate di frutta fatte in casa e dialogare con ranocchi. Oggidì i loro corpi hanno modo di svilupparsi armoniosi grazie ai molteplici impegni sportivi cui hanno facile accesso, seguite da validi trainer che sanno consigliarle anche nell’alimentazione, molto meglio di qualsivoglia libro di ricette o antiquato consiglio nonnesco.

Un grande avanzamento culturale, dunque. Oggi le fanciulle crescono sane grazie alla protezione di cui usufruiscono, nelle loro case, palestre e scuole comode, lontane dai pericoli, igienicamente controllate. Niente sporco, terra, fango, sassi con cui farsi male: locali climatizzati e supplementi alimentari. Precoce capacità di muoversi sulla rete identificando ottimi siti per lo shopping da casa. Niente incidenti all’aria aperta o bacche velenose. Sono fortunate: belle, intelligenti, flessuose, atletiche, protette, interessanti e ricche.

Il fatto miracoloso, imputabile a una grande capacità di sfruttare a volte anche il poco fino in fondo, è che perfino se i loro genitori non sono particolarmente abbienti loro riescono sempre ad assomigliare a delle bambine ricche, piene di giochi, bambole, telefonini, vestiti, cartelle, diari. E hanno un formidabile gusto nello scegliere: solo le cose più costose, di marca; e tutto in tinta.

Tutto rosa, per dire la verità. Pare che il gusto nell’abbinamento dei colori, oggigiorno, si sia evoluto al punto che non si abbinano più solo nell’individuo, ma in modo transpersonale. Solo le femmine, però, hanno raggiunto questo livello eccelso di raffinatezza. Ho visto intere prime elementari in cui, mentre i maschietti creavano, come pare che loro si addica, una gran confusione, le femmine offrivano una splendida panoramica di un rosa omogeneo, pervasivo, incredibilmente coordinato fin nei minimi dettagli, nell’abbigliamento come negli accessori.

E poi il femminismo ha di certo lasciato un segno positivo, anche se non tutti sono d’accordo. Le bambine di oggi hanno idee chiare anche culturalmente; ad esempio nella scelta delle loro prime letture, non si contentano più di leggere fumetti di un tipo qualunque. Invece che Topolino, le bambine di oggi leggono Minnie. Insomma, non devono aspettare di esser grandicelle per accedere a contenuti fatti su misura per loro.

Per non parlare della costruzione della loro personalità: hanno conquistato una vera consapevolezza della loro identità di genere, anzi, oserei dire della loro sessualità. Non più costrette a nasconderla fino ad un’età più avanzata, sanno mostrarla con molta naturalezza già verso i tre-quattro anni: avrete notato certamente quante bimbette sulla spiaggia indossano il due pezzi, e non di rado portano minuscole simpatiche ciabattine di gomma con un filo di tacco!

Dimentiche di un tempo ormai superato in cui l'obbligo dell'originalità spingeva le bambine di ieri a un'eccessiva ricercatezza e distinzione, le bambine oggi si sono gettate quell'egocentrico snobismo dietro le spalle e hanno raggiunto uno standard di superfemminilità splendidamente omogeneo ed accurato, facile da mettere insieme e da replicare: un'eredità preziosa e funzionale anche per quelle che verranno.

Qualcuno potrebbe essere tentato di leggere in questi eventi un segno dei tempi che cambiano, e forse sì, è vero, è in corso un’evoluzione generale. Tuttavia devo dire che la sostanza rimane immutata: le bambine erano e sono belle, brave e intelligenti, dolci e obbedienti. Anche se, avendo più carattere, spesso protestano e piangono tutte le loro lacrime (cosa che com’è noto ai genitori italiani si addice alle bambine più che ai maschietti) le bambine di oggi hanno ben chiaro il loro ruolo futuro, pur se con un’idea della loro indipendenza e sessualità certamente più marcata di un tempo. I giochi che scelgono non sono cambiati: bambole, passeggini, carrozzine, set di cucina completa, casa della Barbie. Certo c'è stato uno sviluppo: i giochi sono più complessi, adeguati alle moderne tecnologie di telecomunicazione, le bambole piscianti non sono più un problema e i corredi sono aggiornati con tutto l'occorrente per la vera casa interfacciata: ad esempio, un sensore attiva un allarme che avvisa il robot badante della necessità di cambiare il piccolo, mentre i movimenti delle bambole più grandi sono monitorati atraverso chip inseriti nei vestitini, cosicchè non ci sia mai di che preoccupparsi e rimanga anzi del tempo libero. Inoltre, dai giorni in cui l'unica bambola con i seni era la Barbie, n'è passata di acqua sotto i ponti. Tramontata l'era dei supereroi, le nuove supereroine, audaci, sportive e scattanti, mostrano chiaro il segno della loro armoniosa femminilità.

Le bambine di oggi, come e più di un tempo, sono perfette miniature delle loro madri, anzi prefigurazioni di future madri migliori, grandemente aiutate in questo dai numerosi modelli che vengono forniti loro da un ambiente domestico e sociale che vieppiù supplisce alle carenze inevitabili delle madri e dei padri, del loro tempo, della loro disponibilità a mettersi in gioco e capacità di orientarle, crescerle, amarle, renderle libere e cosapevoli, capaci di essere se stesse e di costruire piano piano la loro singolare identità e una sana relazione col mondo. Che cosa potrebbero ricevere di più?

Che dire, infine, di questa generazione di bel(ve)line? che siano un po' posticce, omologate, nutrite di pillole, iperprotette, carcerate fra quattro pareti, molto condizionate e poco educate, circondate di beni di consumo e di modelli stereotipati, regredite a oggetti iperprogrammati di una cultura di rinnovato sessismo, bimbe dall'orizzonte rosa pronte a sculettare davanti al primo cavaliere azzurro che si presenti via internet, poi al secondo, e al terzo?
No, niente banali invettive, per oggi, le bambine meritano di meglio. Io ho detto la mia: a voi la riflessione.

giovedì 28 agosto 2008

Biscotti biologici e senza grassi animali?!

L’invettiva di oggi sedimenta nel cassetto delle arrabbiature da lungo tempo, ed è molto semplice. Non è rivolta solo al mondo del bio, ma poiché è quello che appare come il paradiso della salute e dell’equità, s'indirizza soprattutto contro una certa tendenza a mascherare da prodotti sani bio-eco-equo-compatibili anche cosacce che di poco differiscono da quelle del supermercato.

Mi atterrò qui all’argomento salute.

Chi prova a mettere piede in un costoso negozio biologico (nessuna polemica: però io consiglio a chi non sprizza danari dalle orecchie di saltarli e andare direttamente dai produttori, aderendo a un GAS della propria zona: molto più utile e istruttivo), qualora voglia dei biscotti o crackers o merendine, si troverà di fronte una vastissima scelta di prodotti propagandati come salutari anche in virtù del loro contenuto in… udite udite… GRASSI VEGETALI! Ora, non dico che codesta dicitura celi il diavolo in persona, ma vi posso assicurare che, quand’anche vi fosse opportunamente apposto un bel NON IDROGENATI, di cibo angelico comunque non si tratta.

Anzitutto la logica: dietro una scritta così generica di certo non si nasconde olio d’oliva extravergine, ma nemmeno di girasoli o di mais; qualche volta, forse, di soia. Ma al 99% si tratta di oli di palma e di cocco. Queste sostanze, di scarso odore e sapore, molto viscose, sono l’ultima scoperta della pasticceria industriale e purtroppo anche artigianale. Si lavorano facilmente, con ottimi risultati, e ovviamente COSTANO POCO (a chi produce il biscotto, s’intende).
Presentano però qualche piccolo inconveniente. Il nonno ha il colesterolo alto e volete praticargli l’EUTANASIA di nascosto? Regalategli tanti bei biscottini, e vederete che entro qualche mese ce la fate. Esagero? Non so, non intendo esprimere pareri scientifici, cercate su internet, ma ne ho letto abbastanza per sapere che questi grassi vegetali non solo sono saturi, ma sono anche molto peggiori del burro, data la loro tendenza ad aggrapparsi affettuosamente alle pareti delle arterie e a invitare all’ammucchiata tutte le altre molecole di grasso che casualmente passano di lì, formando a quanto pare dei bei sostanziosi depositi di colesterolo di quello cattivo – sapete, no, che c’è anche quello buono?

Viva il burro e il colesterolo buono, viva i grassi dichiarati uno per uno in etichetta.
Palma e cocco li preferivo nel sapone!

Un abbraccio burroso a tutt*

venerdì 22 agosto 2008

autostrade del nostro mondo

Riporto l’invettiva del mio amico trnql, atterrato due mesi fa mentre tornava sul suo pianeta, Bradicin, e ben presto ripartito. Prima di andarsene, mi ha affidato questa comunicazione per i terrestri.

Cari amici, la mia esperienza fra voi mi spinge a lasciarvi le mie impressioni di alieno, fatene ciò che volete. Stavo compiendo una missione quando per un imprevisto mi trovai nell’orbita terrestre, e decisi di avvicinarmi con cautela per dare un’occhiata. Scesi verso un punto del globo dove era notte fonda e sorvolai per un po’ una città.
Mi accorsi, troppo tardi, che intorno a questa si levavano numerose colonne di spesso fumo e finii per incapparvi. In seguito mi fu spiegato che i terrestri impegnati in attività produttive rilasciano i fumi delle lavorazioni a notte fonda per non fare una cattiva impressione sugli altri.

Purtroppo avevo anche un problema al radar, molto sensibile all’inquinamento elettromagnetico che c’è da voi, così persi del tutto il controllo della mia navetta. Recuperata all’ultimo momento la visibilità, improvvisai un atterraggio di emergenza su una pista che fortunatamente si trovava proprio lì accanto.

Ma quale orrore! Mentre atterravo mi sfrecciò di fianco ad altissima velocità un piccolo mezzo di trasporto su ruote, poi un altro un po’ più grande, poi un altro ancora più grande: forse spaventati o spinti dallo spostamento d’aria avvertito (non potevano vedermi per via del mio scudo invisibile) i tre si scontrarono e ne seguì un orribile massacro di lamiere e carni. Non potei far niente per loro, i veicoli si accartocciarono sui loro corpi per poi incendiarsi e i loro occupanti, legati con una piccola cintura, non avevano fatto in tempo a saltar fuori, data la velocità della corsa e la violenza dell’impatto. Cose dell’altro mondo.

Finii per capire che non si trattava di una pista di atteraggio, ma non comprendevo esattamente la natura di quel lungo nastro d’asfalto.
Il giorno dopo, in attesa che il computer di bordo riparasse i sistemi, feci un giro con la mia bolla mobile. Ero ancora sotto choc. Mi bastarono pochi minuti per rendermi conto della follia locomotoria che mi circondava. Da noi non si utilizzano mezzi così veloci per spostamenti di superficie. Noi camminiamo molto, utilizziamo cicli di vario genere e disponiamo di trasporti su rotaia per gli spostamenti più lunghi. Ma sulla terra sembra regnare un ritmo di spostamento forsennato e incredibilmente disseminato.

Osservando, compresi che, benchè la cosa paia del tutto incredibile nella sua assurdità antieconomica e sconcertante per i panorami emotivi e psicologici che suggerisce, probabilmente ogni singolo terrestre possiede un autoveicolo di sua proprietà. Inoltre queste navette su ruota viaggiano senza alcuna protezione, libere di sterzare a proprio piacimento, senza binari, con la sola restrizione delle complicate e numerosissime reti di piste asfaltate, un vero pazzesco groviglio che sembra circondare ogni cosa.

Come proiettili impazziti, i veicoli terrestri girano senza sosta in tutte le direzioni, ovunque, a velocità diseguali, e quel che è assolutamente strabiliante è che ciò avviene nonostante l’evidente coincidenza massiccia dei loro spostamenti: vanno in enormi, allungatissimi gruppi nelle stesse direzioni, negli stessi orari! I veicoletti sono una tale quantità che in molti casi rallentano o si fermano perché non trovano superficie sufficiente per scorrere; in più nelle città molte piste sono affiancate per chilometri da due cordoni di mezzi fermi, pronti a partire: ce ne sono più di uno per porta! Trovandosi tutti allo stesso livello, finiscono per fagocitare spazi qua e là, e quando poi si mettono in moto devono continuamente fermare la loro isterica corsa per lasciar passare quelli che incrociano, con gli errori e le confusioni che si possono ben immaginare.

Ascoltando le emittenti radiotelevisive terrestri ho riscontrato un'alta presenza di discorsi intorno a difficoltà di approvvigionamento e distribuzione dell’energia: ma certo! Come si può pensare di non averne, dovendo approvvigionare ogni giorno ogni singolo terrestre per spostarlo a destra e a sinistra in un suo personale mezzo di trasporto!
Per questo ho deciso di lasciarvi un prospetto dettagliato con tutte le indicazioni tecniche ed economiche relative al nostro sistema di trasporto pubblico integrato, che collega ogni punto del nostro pianeta in modo davvero efficiente. I nostri trenini fotovoltaici a cremagliera vanno tutti a velocità costante (40 km orari per i locali, 80 per le lunghe distanze) e sono composti da sottounità che raccolgono gli abitanti o le merci delle singole aree per poi agganciarsi alle unità maggiori. Solo nel caso di abitanti molto isolati esistono anche microunità che vengono a loro volta integrate nel treno principale.

Siamo abituati a questa che voi chiamereste lentezza, ripagati forse da puntualità, sicurezza, pulizia ed economia del mezzo, confortevole e utile alla socializzazione, ordinato e funzionale, capace di assumere la dimensione richiesta dal flusso reale di bradiciniani e di merci momento per momento. Se proprio abbiamo fretta, abbiamo i nostri velivoli, ma la vita quotidiana è regolata da un passo tranquillo, e chi desidera esprimersi nella velocità può farlo utilizzando numerosi veicoli diversi negli appositi stadi sportivi. La produzione dei trenini non arricchisce nessuno perchè arricchisce tutti, non cresce né descresce: il numero del personale impiegato nella produzione è costante, dato che si tratta semplicemente di fare manutenzione e rigenerare o talvolta sostituire i pezzi che invecchiano. Inoltre, i nostri trenini possono raggiungere le velocità stabilite dalle leggi, non possono superarle! Vi sembra strano? Se sì, fatevi delle domande.

Noi di Bradicin eviteremo d’ora in poi di sorvolare la vostra superficie, a maggior ragione di atterrarvi. Temiamo per la nostra sicurezza, ma soprattutto per voi: il vostro sistema rischia di distruggervi, economicamente e psicologicamente: il rancore interpersonale potrebbe continuare a crescere, se mantenete la proprietà individuale e diffusa di mezzi così veloci e pericolosi, come piccole potenti armi da guerra personali. Dal più pofondo del mio cuore di bradiciniano, vi auguro di trovare le sinergie per smantellare col tempo il costoso, conflittuale e sì, ridicolo, sistema di trasporto terrestre.

mercoledì 20 agosto 2008

Contro l’uomo in giacca e cravatta: una proposta

Non ho niente contro la giacca e la cravatta, benchè trovi tutto sommato un po’ limitato e in parte ridicolo l’abbigliamento maschile nel suo complesso. Non a caso la moda e le invenzioni un po’ bizzarre degli stilisti tendono negli ultimi anni a femminilizzarlo e a movimentare un po’ il suo guardaroba con forme ibride, ma con obiettivi poco chiari e risultati deludenti.

Sono per strada e vedo due gruppi di maschi che si sfiorano, camminando in direzioni opposte. Gli uni in giacca e cravatta, età intorno ai trenta. Gli altri in jeans e maglietta, età intorno ai venti. I secondi si girano e commentano: ma guarda quelli come son conciati. A chissà quanti questo commento parrà fuori luogo, ma non a me. La divisa scura di giacca e cravatta è molto di più di un vestito.

È il classico abito che sta all’origine del detto del monaco. È carica di simboli e di emotività. A seconda di chi la porta, gronda ingenuità, desideri, speranze, aspettative, certezze, presunzione, sicumera, disprezzo, autorità, delirio di onnipotenza. Questo tutti lo recepiscono facilmente. Si capisce in fretta che cosa c’è dietro, qual è il livello di potere effettivamente raggiunto dal corpo che indossa la divisa. Si capisce se calza con naturalezza, quindi dentro c’è un padrone (senza giudizio: può essere un padrone che spadroneggia oppure un uomo gentile e padrone di sé) se invece tira qua e là, addosso a un servo in cerca di fortuna.

Ma ciò che detesto della divisa è che, una volta acquisita la naturalezza nel portarla, chi la indossa diventa eticamente invisibile. Non sai più se è un imprenditore onesto o un furbacchione. La maschera si ispessisce, diventa talmente impenetrabile che, man mano che vai avanti negli anni e scopri nefandezze intorno a te, finisci per convincerti che dietro a ogni cravatta ci sia un lestofante. Se è un professore, sicuramente è stato spinto da una cordata di amici. Se amministra la cosa pubblica lo fa per procacciarsi ricchezza. Giacca e cravatta ben portate sono una vetrina noiosa, monotona, troppo diffusa, troppo opaca e danneggia le brave persone che la portano per semplice decenza.

Se non è più il tempo di dare il potere alla classe operaia, bisognerebbe per lo meno trovare il modo di rendere un po’ più elastica, dinamica, flessibile, la posizione del potere dei potenti, così secolarmente abbarbicata ai suoi vecchi e nuovi soggetti, come una muffa delle più tenaci, un lichene indistruttibile, una ruggine che fa tutt’uno col ferro. Si dovrebbe fare in modo che scivoli via più facilmente, intendo in quei particolari e strani casi in cui si tratta di potere immeritato e mal gestito.

Come fare? È colpa di giacca e cravatta, se il potere acquisito non si allontana più da chi lo detiene. Per quante porcherie abbia combinato, la divisa lo protegge. La sua capacità di darsi a vedere sicuro della sua giacca e cravatta lo reintegra continuamente in uno status che non gli compete. Anche se paga la multa e nel migliore dei casi perde il posto di sindaco o di deputato o chiude una delle sue società, avrà sempre una via aperta per proseguire nel suo cammino incravattato.

Un’idea: visto che i potenti che sbagliano difficilmente vanno in carcere (tranne pochi capri espiatori che poi scrivono autobiografie) o se ci vanno ne escono presto, pagano multe irrisorie e in men che non si dica si rimettono in piedi, modifichiamo leggermente la divisa, affinchè non abbia più potere.

Obblighiamoli a sostituire la cravatta con un bel fiocco colorato, giallo limone o verde acido, o di tanti colori insieme. Rotondo, gonfio, simile a quelle morbide strane nuvolette di retina colorata che qualcuno usa per fare la doccia. Un vistoso, vivace farfallone, una macchia di colore sul triste gessato, un gioiello di pizzi vaporosi sul colletto inamidato. Buongiorno …professore, salve ehm …assessore, ah, è lei, cavaliere, per un attimo non l’ho riconosciuta! Buffo, no? Guarda quanti ce n’è, fiocco rosso, fiocco viola, che fiocco si mette oggi, avvocato? Su, non si abbatta, è una cura: vedrà che imparerà a non prendersi più così sul serio, come già facciamo noi, e tutto riacquisterà la giusta dimensione. In fondo nessuno la manda nei campi, per quanto anche quella, devo dire fose un’ottima idea, partorita purtroppo insieme ad altre meno buone.
Fra qualche mese, se si comporta bene, potrà togliersi anche la giacca, un sano cambiamento di punto di vista, e forse in fondo quel fiocco potrebbe perfino diventare di moda…

Dedicato con umiltà a Virginia Woolf e alla sua memorabile invettiva contro le divise militari (leggi le Tre Ghinee)

lunedì 18 agosto 2008

della televisione

Quand'ero piccol* mi lasciai convincere a finire un piatto di risotto dietro promessa che i cartoni animati sarebbero poi usciti dal televisore per giocare con me. Dopo la delusione, ho smesso di crederci. Ma non tutti hanno avuto questo iter.
Qualcuno è ancora lì che attende che il suo pezzo di realtà fantasticata a poco a poco fuoriesca dal video e si componga in tre dimensioni. Il problema è che accade veramente. Questo è il problema.

La televisione fuoriesce e plasma il paesaggio che abitiamo. Pensavo (pochi anni dopo la faccenda dei cartoni animati) che la pubblicità non avesse tutto quel potere, invece ce l'ha. Pensavo, beata innocenza, che la pubblicità avesse un suo posto accessorio, invece è la base necessaria e pervasiva che intride l'intero palinsesto, poi da lì trasuda, si spande, s'irraggia e dà corpo a spazi, oggetti, personaggi del mondo reale.

Reality non significa che la realtà entra in televisione, ma che la televisione cammina fra noi. L'elenco del televisivo raggiunge ormai lunghezze satellitari: una parola dopo l'altra, la realtà cede, non uccisa come disse Baudrillard, ma plasmata dalla tv. Tv al plasma? no, tv plasmante.

Il punteggio della pallavolo. La pericolosità dello zucchero. La leggerezza dell'acqua in bottiglia. I sogni delle bambine. La colonna sonora nelle nostre case: rumore che ci ricorda che tutto scorre senza mutamenti. L'attenzione per i figli. La durata della capacità di concentrarci. La qualità dei nostri pensieri. La contrattazione con le cose. Il valore, anche affettivo, dello shopping, forse la più frequente occasione di autoaffermazione della persona che è in noi.
Fantastica tv. Illuminante maestra che ci indica la via sbarluccicante di un paradiso terrestre con il codice a barre impresso sopra.

Non stare tutto il tempo davanti alla tv, dice la tv, alzati e cammina, tanto con dolorzut non ti accorgerai nemmeno di essere già morto, e con eternosniff toglierai la puzza per sempre. Acquista una nuova Garlinda triturbo da zero a cento in sei nanosecondi, così, fra monti urbani e scogliere tangenziali, raggiungerai la mole maestosa del discount nel tempo di un teletrasporto, e lì potrai rilassarti con un sushi in bocca mentre Garlinda viene lavata.

La televisione, solerte, registra il residuo dei nostri desideri e attaccamenti, li amplifica sulla scena, li trasforma in imperioso valore di riferimento e ci guida così, sicura e costante, nel mare confuso e doloroso della vita. E non è anestesia, non c'inganna, la cara flat-scatola, anzi ogni giorno ci informa sul terribile stato del pianeta, sincera fonte di una completa e veritiera informazione.

Attenta interprete di ciò che siamo e di ciò che necessitiamo, contratta per noi le priorità di acquisto, la scelta della meta delle vacanze, il rinnovamento del nostro parco di tecnologia domestica, gli ingredienti dei biscotti, che cosa fa bene e che cosa fa male, che cosa è utile e che cosa è inutile, che cosa pulisce e che cosa non pulisce più, la forma delle sopracciglia, la linea del pudore, l'accettazione gioconda delle inevitabili regole imposte dalle compagnie telefoniche, l'appetibilità di un sabato al centro commerciale, la necessità di nuovi oggetti, la colpa di alcuni soggetti, chi vince e chi perde lo show politico, il confine della nostra innocenza e del nostro essere vittime, la quantità di problemi che virtualmente ci affliggono e la loro soluzione più immediata: la televisione è il gel miracoloso che, anche in mancanza di amore, responsabilità e attenzione, incolla i pezzi della famiglia bisognosa di aiuto e tutte le famiglie fra loro, sopprime i sintomi negativi, attutisce i dubbi, zittisce i conflitti.

Sintomo: stato del nostro sentire che ci rivela un problema al momento, altrimenti, nascosto.

Un tempo il cliente aveva sempre ragione, oggi il cliente è divenuto pubblico televisivo. Il che non sarebbe così grave, se non fosse per la nostra dannata tendenza a rinunciare a pensare, a voler assomigliare a qualcun altro. Eccolo, il pubblico televisivo, è lì dentro, nella televisione, e da lì è uscito, mentre mangiavamo un risotto, e senza accorgerci di niente, come nell'invasione degli ultracorpi, non eravamo più noi, ma loro! Proveniamo dalla casa, dall'isola, dalla poltrona dell'ospite. Le loro lacrime sono le nostre, la loro voglia di fortuna è la nostra. Io non penso più il mio pensiero, ma il mio pensiero mi pensa, ed è un pensiero televisivo.

Non spegnerò la televisione. Non butterò l'arma dove non posso vederla. Continuerò a osservarla, a vederne uscire i pensieri da pensare, le bambine rosa, i bambini celesti, le cinquenni con il due pezzi, i cinquenni sedati dal nintendo, i ragazzi che s'incontrano all'iper, le mogli che aspettano il loro turno per il suv, i mariti che aspettano il loro turno per stare finalmente davanti a lei, la televisione, caro magico monitor da cui escono le belle donne dai seni perfetti, le partite di cui parlare, gli arbitri contro cui esprimere proteste liberatorie, i pensieri da pensare...

domenica 17 agosto 2008

presentazione e brioche

Buongiorno, sono Brontolin: un rimedio tradizionale, di un genere non omeopatico ma ben collaudato, che dà sollievo in caso di rabbia inespressa.

Come invettiva inaugurale sceglierò una delle mie recriminazioni storiche, con cui ho stuzzicato piacevolmente baristi e bariste: BASTA alle orribili brioche surgelate, cotte con mal riposto orgoglio nel casalingo fornetto del bar!

Quand'anche non siano crude o carbonizzate, nè si presentino alla mandibola come un blob viscido fuori e colloso dentro, quando cioè siano cotte a puntino e lasciate raffreddare per bene, rimangono sempre delle orribili cose industriali dai dubbi ingredienti, scarso sapore, triste consistenza e profumo omologato.
E fa nulla se si imbellettano con i nomi di tre pie pasticcere o altri marchi blasonati e ben pubblicizzati: la maldestra facciata da antico forno di paese cela sempre un megaimpianto di periferia, di quelli che ammorbano interi isolati con un perpetuo stagnare di vapore zuccherino.

Se in un momento di inconsapevolezza le scegliete farcite, potete scommettere che si tratta di un composto di emulsionanti-aromatizzanti-conservanti e altre faccende che con l'alimentazione non si sa bene che c'entrino.
Se, costretti da un calo di zuccheri e in mancanza di migliori alternative, scegliete una di quelle vuote, sperate anzitutto che non contengano "grassi vegetali" e tanto meno "idrogenati", poi evitate di pensare, fate un bel respiro e masticate con serenità, infine guardate il-la barista e comunicategli che sarebbe bello un giorno entrare nel suo bar e assaporare una brioche fatta di farina, zucchero, uova, burro e lievito, cotta in un forno a legna e recapitata giornalmente dal panettiere o pasticcere più vicino, invece di quel fagotto tenuto insieme dai collanti del business chimico e trasportato per centinaia di chilometri insieme a migliaia di gemelli in simpatici tir refrigerati!