mercoledì 31 dicembre 2008

autogrill

Tre euro un arancino pallido; quattro euro un panino caldo fuori e gelato dentro; quattro euro una fetta di pizza gommosa e sbrodolante un sugo di media qualità (e cara grazia!). Ho l’abitudine, e non per risparmio, di scansare la versione più costosa , adorna di avvizzite fette di salamino. Prezzo normale per il cappuccio e la brioche. Ma il cappuccio non arriva all’orlo della non capace tazza, mentre per la brioche vi rimando senza dubbio all’invettiva iniziale.

Per lo meno hai una certezza: per qualche ora il tuo stomaco non si annoierà. Merito soprattutto delle salsette con cui si tenta di coprire il desolante miscuglio di sapori delle materie prime.

Comunque, ora ti senti sazia-o, e hai per lo meno ricordato l’odore della pizza.

Nulla da dire sul servizio: di solito è frettoloso e musone in tutte le catene di questo tipo, ma so bene che è principalmente una conseguenza del cattivo trattamento subito dai dipendenti (saranno poi assunti a tempo indeterminato, o interinali pure loro?), anche se, per la verità, non sono tanto disposta a scusare questo avvilimento diffuso, sia pure sintomo di una freddezza del contesto che non stimola il risveglio di qualità etiche e sociali.

Ma, devo dire, ci sono state anche calde, gradite, splendide eccezioni.

Il fatto è che non si può semplicemente bere un caffè e via, indolore. Sospetto una collusione con i ladri del parcheggio, che così hanno un po’ più di tempo, ma come sapete c’è obbligo di passaggio attraverso il tortuoso itinerario delle specialità regionali offerte dal market più costoso d’Italia. Ottimo per farsi una cultura sulla gastronomia nostrana, buona per le prime domande, quelle facili, de Il Milionario.

Momento di relax e di sano intrattenimento è quello offerto dallo spettacolo del simpatico porcellino di peluche semovente o del cagnolino che dà insistentemente la zampa, nelle versioni rosa, bianco e nero; qui comincia uno spazio di vera formazione socioantropologica sulle tendenze pedagogiche per grandi e piccoli: rassegna completa del giocattolo più paillettoso e kitsch, nonchè della manualistica per l’autoapprendimento di tutte le verità dell’esistenza, senza dimenticare le collane di manuali per tutti i software di un sistema già troppo nominato per rinominarvelo qui.

Sorvoliamo sul settore cd e dvd, perché l’offesa al pubblico italiano provoca il disgusto. Fa niente se siamo noi consumatori a determinare, dicono, le scelte della distribuzione.

Alla fine, si esce. Ma che si ritrova? Se nessuna portiera è stata scassinata, un veicolo rovente l'estate; meglio l'inverno, ma nulla giustifica la desertica, inospitale accoglienza che queste strutture riservano ai viaggiatori. Se c'è un albero, è un fuscello; se c'è una tettoia, ha all'incirca la profondità del parasole in cui di solito infiliamo il biglietto dell'autostrada.

Nei prezzi, per la verità, c’è chi batte cotal negozio, a pari qualità: si tratta del supermarket della Stazione Centrale di Milano (bottiglietta d’acqua piccola, indispensabile per il viaggiatore: circa euro 1,50). Sì, avete capito bene, è un supermarket, non il carrellino che ambula in testa ai binari. Ma bisognerà verificare i cambiamenti apportati dalla recentissima ristrutturazione della Stazione (una delle cento d'Italia che con molto battage hano ricevuto il lifting), che da quanto ho visto ha aperto sinuosi scaloni mobili, corridoi e uffici là dove un tempo era il nulla, grandiosamente spalancato dal gusto fascista.

Mi viene in mente poi un cappuccino bevuto di recente a Sorrento, in uno dei bar più anonimi e privi di classe della cittadina, pagato euro 2,00. E disgustosamente lattiginoso, per di più. Potrei scrivere un’invettiva solo su quello, se non altro per liberarmi dell’odiosa sensazione di beffe oltre al danno, provata quando la signorina del bancone, nel prendere il denaro, mi lanciò un dentatissimo “tutto bene?”. Ma come poteva pensare che andasse tutto bene, quella lì? Imparasse a fare un capuccino, mannaggia.

Che dire? Di questa decadenza si accusa ancora il capitalismo, la smania di arricchirsi possibilmente imitando il sistema americano e la sua standardizzazione. Ma sarà così? O sarà semplice vecchia rassicurante avidità eretta a sistema? Vi do solo un saggio della mia esperienza americana.

Ero sulla 491, oppure sulla 64, insomma in New Mexico, nel bel mezzo di un deserto dove occorre avere il serbatoio ben pieno perché i distributori scarseggiano. Finalmente giungiamo a una casetta, circondata da camion, cosa che da noi si intende di solito come garanzia di buona cucina. Il fatto è che lì non c’era scelta, monopolio assoluto, peggio dell’autogrill.

Quindi entriamo, affamati, dato che le scorte di frutta, formaggio, avocado e pane di pasta acida erano terminate da tempo; che delizia! Ci accoglie un colibrì, intento come spesso accade da quelle parti a succhiar del miele da un aggeggio appeso lì fuori. Dentro, ci fanno accomodare due graziose e grinzose signore che ci servono i loro home-made dishes, semplici e gustosi – niente ketchup, niente french chips.

Qualche giorno dopo, credo in Colorado, in un altrimenti stereotipato paesetto reso ricco dalla pratica del rafting, prendiamo il tè nella casa-caffè di altre simpatiche sciure, assaporando deliziose torte fatte con mani memori di ricette nonnesche. Questo è l’aspetto magico degli Stati Uniti: sono la culla dell’omologazione santificata, ma anche la culla della diversità insopprimibile, di qualcosa che ha un sapore grato di creatività e non di rado anarchia, altrimenti detta libertà.

A meno che fossimo incappati per caso e due volte di fila nella tipica intrapredenza delle coppie lesbiche un po’ annoiate…