La questione nucleare è una cartina di tornasole della funzionalità della politica dal basso, della partecipazione responsabile di noi tutti al nostro destino, insomma, della democrazia.
Ricordate il mito del Minotauro, o la storia di San Giorgio e il Drago? Sacrificare ogni anno fanciulli e fanciulle era il patto, odioso ma giudicato accettabile, che evitava alle popolazioni, governate da re, un pericolo più grande. Non risulta che la gente si opponesse al volere dei loro governanti.
Le implicazioni simboliche di quei racconti sono tante, ma qua interessa solo la questione del giudizio, condiviso dall’autorità politica e dal popolo (ma probabilmente non dalle vittime), di accettabilità del sacrificio. Nei miti come nella realtà presente.
Oggi riteniamo di essere civilizzati perché guerre e sacrifici umani sono lontani da noi nel tempo e/o nello spazio. Intanto viviamo in un complicato e sviluppatissimo comfort, benché a volte un po’ zoppicante e bizzarro nel bilanciamento fra quantità di ricchezze e di apparati tecnologici disponibili e qualità ‘percepita’ della vita.
L’abbiamo scelto: siamo in democrazia. Ma che cosa abbiamo scelto? Siamo sicuri di saperlo? E se il potere fosse in mano nostra, in mano mia, invece che in quelle dei deputati e senatori che mi rappresentano, farei le stesse scelte?
Va bene andare avanti così, o si percepisce un pericolo? Non si sta diffondendo la sensazione che le nostre economie, già in crisi da tempo, stiano barcollando sopra qualcosa di simile alle bolle speculative su cui sono crollate numerose grandi aziende in Italia e nel mondo? Va bene così, o le politiche energetiche dei governi occidentali evidenziano, nella loro pazza corsa al nucleare, la confusione e il panico strisciante dati dalla prospettiva di risultare prima o poi quel che già siamo, cioè più poveri di molti paesi emergenti che detengono maggiori risorse?
È per questo che, sotto sotto, siamo tutti d’accordo nel sacrificare fanciulli e fanciulle al drago?
Non è forse il panico di perdere i propri privilegi che accomuna i politici rei di scelte poco lungimiranti e a volte inumane e noi abbindolati dai numeri del Pil e dalle statistiche sulla crescita industriale? E non è forse la paura che immobilizza molti e li rende acritici e inerti, a volte beati, davanti allo spettacolo squallido di un premier simbolo del maschio italiano che nonostante tutto si diverte, orgoglioso del suo potere?
Forse sì, abbiamo paura, eppure credo che il nucleare evidenzi una frattura fra ciò che apparentemente accetto e ciò che effettivamente sceglierei. Nonostante l’inerzia di molti di noi, credo che ci sia davvero differenza fra ciò che il governo decide e ciò che noi, al loro posto, sapendo tutto quel che c’è da sapere, sceglieremmo.
Il problema del nucleare mette in luce uno stato di sofferenza dei meccanismi della democrazia, che occorre invece rivitalizzare, mostrando attivamente il nostro parere.
Siamo disposti a sacrificare gli innocenti al Minotauro, al drago? Se ci rassicurano sul fatto che teoricamente nessun danno dovrebbe conseguirne per noi e i nostri figli, che c’è una pressoché totale sicurezza, che è un’energia pulita, sembra che noi non chiediamo altro, che ci lasciamo rassicurare, rifiutando i pareri diversi come questioni ideologiche e faziose, e ci teniamo invece i vantaggi, le facili prospettive di ricchezza – o almeno così appaiono.
Ma che cosa riceveremo, precisamente, in cambio? Perché mettere un drago nel nostro giardino? Saremo forse un po’ più ricchi, pagheremo meno la bolletta dell’energia elettrica, diminuirà qualche tassa comunale, saremo meno dipendenti dal petrolio e quindi da altri paesi? Forse.
Ci rassicurano: in Italia non può verificarsi né Chernobil né Fukushima. Ma il nucleare fa male solo in caso di terremoti o tsunami? Per il resto, è pulito e sicuro?
Non c’è modo di sapere se non ci sarà mai un errore umano. Anche se non ci fosse, non c’è modo di evitare i piccoli continui ‘incidenti’ che si verificano nelle centrali esistenti nel mondo, così ordinari da non essere nemmeno considerati tali. Il nucleare produce nel pianeta una radioattività che prima non esisteva, che viene in parte rilasciata nell’ambiente, un giorno dopo l’altro. Ogni organismo contaminato diventa a sua volta un trasmettitore, inclusi i corpi delle persone. Una lattina di carne in scatola ermeticamente chiusa può essere analizzata (con un esame condotto servendosi di minerali radioattivi) per sapere se è stata prodotta prima o dopo lo sgancio della prima bomba atomica: da allora, non c’è più niente che non sia contaminato dal fall out generato dall’impiego del nucleare per guerre, test militari e impieghi civili. Per anni Francia e Stati Uniti hanno ‘provato’ le loro bombe nei deserti o in mezzo al mare. La radiazioni se ne sono andate nell’aria, nell’acqua, nei tessuti animali, e a poco a poco sono state trasportate per il mondo dalle piogge, un’esplosione dopo l’altra, e sono ancora qua con noi. Poi sono arrivati missili, semplici proiettili, piccole atomiche poco visibili diffuse qua e là nelle guerre e anche in oggetti del tutto pacifici. Prodotti anche da noi, giorno dopo giorno.
Che ne è dei materiali che già oggi, negli ospedali, nei laboratori e nelle fabbriche entrano quotidianamente in contatto con le radiazioni? Che ne è delle piccole fughe, piccole contaminazioni che si accumulano già ora nel tempo e nello spazio, sovrapponendosi all’inquinamento atmosferico, alle onde elettromagnetiche, alla chimica che ingeriamo con gli alimenti industriali, con la frutta e la verdura coltivate lungo le autostrade e irrorate con il veleno? Quanto possiamo tirarla ancora, questa corda?
Gli americani, le scorie radioattive, le mettono in un buco in mezzo a un deserto di sale, New Mexico, ma perfino lì c’è dell’umidità, e alle goccioline che poi evaporano, gli atomi instabili affidano i loro magici raggi. Nemmeno il buco in mezzo al deserto è la soluzione, ma al momento è il male minore.
E da noi, invece, che fine fanno le scorie quotidiane e i rifiuti da impianti in dismissione? In teoria, va tutto nei buchi scavati qua e là, ma in pratica, possiamo essere sicuri che non finiscano in discarica com’è accaduto in Brasile, o non siano riciclati in un’altra lavorazione, com’è accaduto in Cina, o siano stoccati in una nave poi affondata in mare, com’è accaduto in Italia? Nel paese delle discariche abusive, della diossina nell’acqua, nella terra, nel latte, nel paese della ‘questione napoletana’, possiamo immaginare che tutto vada con nettezza e precisione in un buco in mezzo al deserto?
Ci sono dei morti. Cancri, leucemie, forse altre malattie, forse anche molte malattie non mortali.
Il numero di correlazione certa dei morti alla radioattività emessa da attività umane negli ultimi 60 anni è ignoto: si sa solo che ci sono stati e ci saranno dei morti. Sul nucleare vige molta incertezza e solo una certezza: qualcuno, prima o poi, muore. Certo, si muore anche per molti altri draghi nella nostra economia. Pattumiera e produzione energetica, industria chimica, trasporto su gomma...
Ma qualcuno in più, col nucleare, lo manderemo, suo malgrado e spesso a sua insaputa, volontariamente e d’accordo con i governanti che abbiamo democraticamente eletto, dritto in bocca al Minotauro.
Forse è ora di ricordarci che possiamo e dobbiamo essere noi, oggi, i nipotini di Arianna, Teseo e Giorgio.
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