Ho passato nove anni della mia vita lavorando all'università, come 'assistente'. Un mestiere che non esiste.
Dopo la laurea, la carriera universitaria non mi era parsa una via percorribile. Poi, trovato un lavoro che mi permetteva di gestire un po' del mio tempo, lo è diventata: e in quel momento qualcuno mi ha chiamata.
Una vera fortuna.
Sono iniziati lì, i nove anni.
Lungo la via, tutto bene. Il tempo scorreva veloce come accade del tempo che si sente impiegato utilmente, e mi piaceva, e ne sono grata, nonostante tutto quel ch'è successo durante e poi, a chi me l'ha permesso.
Chi me l'ha permesso ha però permesso anche che si svolgesse un tipico rituale di sfruttamento a catena, basato sull'amicizia e sulla fiducia, sulle vaghe promesse e, ahimé, sulla mia disposizione ad ascoltare l'altrui continuo piagnisteo, le chiacchiere e i progetti personali di qualcuno di altamente inattendibile, inaffidabile. Comunque sia, il problema non è stato che costui fosse matto, ma che intorno ci fosse l'indifferenza più totale ai meccanismi personalistici con i quali sono stata 'assunta' e 'licenziata'.
Quando l'ho capito, cessata la mia pazienza, entrata in crisi l'amicizia, interrotto il pur modico flusso di denaro che ricevevo, il mio 'rapporto di lavoro' si è concluso, di botto e senza appello.
Mi sono messa a fare un dottorato, con la borsa. Tre anni di ricerca pagata, fa nulla se non era una paga da nababbi. È stato bello. Mi è sembrato di percepire anche della solidarietà.
Ma la solidarietà, nella classe universitaria, è una chimera. Raramente è diversa dalla protezione di una casta. E io ne ero fuori, come la maggior parte dei precari.
Sono stati tre anni intensi, ma altri tre anni di illusioni. Mi sembrava di nuovo di vivere in un paese possibile, dove esistessero regole a tutela del lavoro delle persone.
Nel frattempo, è passata la mannaia di questo Governo: fine dei concorsi, fine delle sostituzioni per i tanti che vanno in pensione. Ma non è più di me che voglio parlare.
Vanno dette alcune cose. Primo: l'assistente, il lavoratore che non esiste, ha tenuto spesso le fila, o ancora le tiene, dell'andamento di un corso, sorvegliando la smemoratezza del docente, rispondendo alle sue email, correggendo le tesi che lui/lei non leggeva, dando supporto, tenendo lezioni tappa-buchi. Tutto questo sulla base di una relazione di fiducia che mescola(va) informalmente privilegio e sfruttamento.
La riforma Gelmini ha avuto un triste “pregio”: accelerare la presa di responsabilità da parte di molti docenti che, di fronte all'impossibilità di pagare e poi piazzare i loro aiutanti, han deciso di far da soli.
In realtà, la riforma non ha fatto che accelerare il processo già in atto di riduzione dei contratti e delle borse e regolarizzazione dei compensi simbolici, destinati a chi se li può permettere. E confermare il destino dei ricercatori: fare i professori – con poco o nessun tempo o denaro per la ricerca – a vita, pagati assai meno di quelli 'veri', a tal mestiere deputati.
Tagliate molte discipline, accorpate altre – a volte anche con buone ragioni – i grandi privilegiati, cioè i professori già strutturati, e i piccoli privilegiati, cioè i ricercatori, si sono sobbarcati di un po' di lavoro in più, mentre molti contrattisti andavano a casa. Gli altri, i contrattisti rimasti, sopravvissuti alla mannaia, chi sono?
Sono i volontari di lusso, i volontari dell'eccellenza: eccellenza in cambio di prestigio. Intellettuali in carriera o pensionati con un reddito alto, che permette loro di aggiungere al loro curriculum una 'perla': il fatto di insegnare all'università. "Tuttogratis", o tutt'al più per un piccolo emolumento, una sorta di rimborso spese.
Fuori dunque gli sfruttati di buona volontà, i neolaureati, i dottorandi, gli studenti, i giovani studiosi capaci di barcamenarsi in qualche modo con due o tre lavoretti. In una parola: fuori i giovani.
Dentro chi ha già un reddito sicuro. Così la Gelmini risana il sistema ed evita lo sfruttamento! Anche Napolitano ha protestato contro la normativa, contenuta nell’articolo 23, sui contratti di insegnamento riservati agli 'esperti': la riforma chiede che per diventare professore a contratto (gratuito) si abbia un reddito esterno da quello universitario di almeno 40.000 euro lordi, una proposta pensata del resto, pare, da quei geni del PD, che quando mettono le mani nella cultura (vedi Veltroni) ne combinano di tutti i colori. Le intenzioni erano naturalmente buone, mettere fine alla pratica definita «precarizzare i ricercatori».
Come ha notato Napolitano, però, la norma introduce una limitazione oggettiva (il reddito) ai requisiti di carattere scientifico e professionale. E io aggiungerei: non la introduce, la radica e la legalizza ancora di più, perché il nostro sistema universitario è basato da sempre, tacitamente, sul reddito: da sempre, se non hai i soldi e quindi anche le conoscenze giuste, nell'università fai fatica, e se sei tenace arrivi al massimo al dottorato. Da sempre dovevi avere un po' di agio economico per poterti permettere la gavetta gratuita, unico modo per farsi davvero conoscere e 'misurare' da qualche docente, per essere introdotto alle persone che contano. E c'è da vincere concorsi, borse, posti. Ogni concorso è una possibilità per quelli che contano di usare il loro potere, manipolando le carte. Diventi merce di scambio.
Certo c'era anche il buonsenso di molti professori che almeno tentavano di operare, pur sulla base di queste premesse, la selezione dei migliori, e di accompagnarli lungo un cammino di acquisizione di strumenti, di saperi, di esperienze, preparandoli e promuovendoli all'interno della comunità scientifica.
Oggi stravincono i contratti a pochi euro, il risparmio totale, appoggiato sul senso del dovere o sulla fame di prestigio di professionisti e pensionati benestanti, i nuovi docenti a contratto gratuito.
La via per i giovani, e per i numerosi 'vecchi' come me che non sono ancora riusciti a entrare, è quella dei concorsi per ricercatore a tempo determinato e successiva, eventuale, conferma: un meccanismo studiato per garantire la possibilità di licenziamento finale, non certo la preparazione e la qualità. Comunque di concorsi non se ne vedono.
Quindi il problema non si pone.
I ricercatori, come detto non ricercano.
Gli studi umanistici e spesso anche quelli scientifici sono desolantemente fermi, o si muovono con tale parsimonia da prefigurare un'agonia.
La verità è che il sistema che assegna zero valore al merito e alla cultura ha ripreso vigore, con la scusa della crisi.
Ma non sono i denari a mancare, bensì proprio il riconoscimento di un valore.
È per questa assenza che non arrivano soldi ed energie pulite alla cultura. Manca totalmente il riconoscimento del valore morale, civile, interiore, umano, spirituale della cultura medesima: ed è questa stessa assenza che pompa il riconoscimento fasullo, ipocrita, l'osanna ai professori che vanno in tv, che scrivono sui giornali, che sanno vendere bene la loro immagine, che alzano la voce.
Manca il modo di utilizzarla, la cultura, nei suoi veri obiettivi. Manca la possibilità di trasmetterla con dignità. Mancano le case editrici che pagano, i periodici che pagano, gli sponsor privati che permettono vere operazioni culturali e non mediatiche, e poi mancano le risorse, gli strumenti, le leggi affinché le università, le amministrazioni comunali, le biblioteche, le case della cultura, gli istituti di studio e di ricerca promuovano il lavoro culturale e lo paghino il giusto, permettendo ai 'colti' di farsi trasmettitori sereni, né ricchi né poveri, né privilegiati né emarginati.
Manca l'appoggio alle cose fatte bene, con serietà, impegno, lentezza, analisi, passione.
Si foraggia, invece, un sistema di sfruttamento in cui la cultura è merce facilmente contabilizzata, in crediti per laurearsi, in punti per i concorsi: stranamente, a questi punti corrispondono somme precise ed elevate, quando si tratta di 'comprare' cultura: vuoi una laurea? Un master? Il sistema attuale facilita enormemente chi abbia il denaro sonante per acquistarla attraverso un bel corso privato, magari online. Vuoi 'venderla'? Beh, allora le cose cambiano. Se sei un venditore puro, un grossista, sei a posto. Ma se sei un trasmettitore di cultura, un piccolo produttore o un venditore al dettaglio, allora non resta che la svendita per pochi spiccioli. O la prostituzione per poche speranze.
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