Forse in tempi in cui si auspicano e in parte si producono multiculturalità e pluringuismo la correttezza della lingua in sé, madre o non madre che sia, passa in secondo piano.
Forse la grande attenzione odierna per
dialetti e idiomi locali non lascia molto tempo alle persone per
impadronirsi anche della 'lingua nazionale'. In fin dei conti, poi,
il concetto di nazione, così travagliato, sembrava già obsoleto
tanti anni fa.
Ma ho imparato che il tempo dei
costumi, dei mores, dell'evoluzione dei concetti non scorre
lineare.
Come non scorre lineare alcun tipo di
'progresso'.
Da molto tempo, siamo in un'epoca di
parziale – ma decisa – retrocessione di alcuni dei più alti
valori laici e civili della società italiana ed europea, che
sembrava aver fatto passi così importanti e decisivi negli anni del
dopoguerra.
Viviamo l'onda lunga della frenata
iniziata alla fine degli anni Settanta, quando cominciò a manifestarsi
la reazione conservatrice nei confronti dissenso giovanile e operaio.
Una reazione complessa, che ha potuto far sentire i suoi effetti in
maniera profonda a partire dalla metà degli anni Ottanta, e ci siamo
ancora dentro in pieno. Ma solo chi ha vissuto in quegli anni si
rende conto della gravità della regressione, tanto più grave quanto
più camuffata, mimetizzata, e ignota ai più giovani.
Nello stesso tempo, però, il progresso
economico ha cominciato a mostrare di essere un'illusione. Così, se
da un lato c'è stato un regresso morale originato dalla volontà di
governi, istituzioni, poteri borghesi e religiosi di tornare a
difendere il capitale privato da un 'eccesso' di libertà sociale ed
etica, dall'altro, oggi esiste un nuovo modo di essere conservatori –
ed aveva perfettamente ragione l'onorevole Santanchè, qualche sera
fa, a dire in televisione che oggi la piazza esprime valori
conservatori.
La piazza, o almeno una bella parte di
essa, vuole conservare quel poco di bene pubblico residuo. Quel poco
di valori morali atti a contrastare l'amoralità dei poteri
economici. Quel poco di valori laici e civili atti a preservare la
libertà e i diritti degli individui.
Solo che a fronte di questi valori
conservatori della 'piazza' non ci sono, come intendeva Santanchè,
valori rivoluzionari, ma altri valori conservatori. È la
conservazione del bene dei molti che lotta contro la conservazione
del bene dei pochi. Quest'ultimo si ammanta di termini
pseudoprogressisti, usa la parola 'libertà'. Ma sono libertà a
volte illusorie, a volte nocive, inadeguate a portare soluzioni alla
crisi attuale, spesso usufruibili da pochi.
Anche quei pochi, a mio parere,
dovrebbero stare un po' attenti. Da quando sono diventati 'così
pochi', perché alcuni di loro sono usciti di scena, dovrebbero
rizzare le orecchie, aprire gli occhi, aguzzare l'ingegno, perché la
mannaia della scena internazionale se ne piglierà molti altri. Ormai
lo sappiamo. Non è che gli imprenditori siano buoni o cattivi. Ci
sono i buoni e i cattivi. Alcuni hanno iniziato a suicidarsi. Forse
erano buoni, forse cattivi. Di certo a quelli che restano converrebbe
fermarsi a riflettere, perché il vento ha fatto il suo giro, e i
privilegi dell'Occidente stanno terminando il loro corso.
Ora, non è che si possa discutere che
un progresso medico, scientifico e tecnologico siano avvenuti. Quel
che si comincia a discutere è se siamo davvero consapevoli della
portata di questo progresso, delle sue conseguenze e soprattutto del
suo significato.
Cominciamo a diventarne consapevoli,
ecco il fatto.
Diventiamo consapevoli che il progresso
non porta benessere, qualità della vita ed equità sociale, ma crea
pigrizia, vittimismo, attaccamento smodato a beni e strumenti che
spesso peggiorano il nostro modo di vivere, rendendoci più
sedentari, provocando problemi fisici e psico-sociali, rendendo
inutile (e sgradito!) in molti luoghi del pianeta il già scarso
lavoro manuale e purtroppo il lavoro in generale, promuovendo un
commercio a grande e grandissima distanza spesso del tutto assurdo,
causando un inquinamento sempre crescente, ingigantendo ogni giorno
di più il potere di chi ha già il potere economico e finanziario,
che tende sempre più a restringersi nelle mani di pochi. Eccoci di
nuovo lì.
Chi saprà mantenersi a galla nelle
nuove economie globali, che sono basate non solo sullo sfruttamento
di una manodopera a basso costo – che non siamo noi – ma
soprattutto sul potere d'acquisto di miliardi di cinesi e indiani, e
non sul nostro?
Come dire, contiamo come il due di
picche. Per non affondare ci vuole vera, umana e complessa intelligenza, perché la semplice
furbizia non ci porterà lontano.
Dunque, di fronte a tali problemi,
chissenefrega se un direttore di uno dei più importanti musei
d'Italia scrive sistematicamente – nelle introduzioni ai cataloghi delle sue mostre, nei saggi critici –
inserendo la virgola tra soggetto e verbo.
Forse la 'comunità accademica' si è abituata a questo genere di cose, e ormai tace, annichilita, o indifferente.
Forse la 'comunità accademica' si è abituata a questo genere di cose, e ormai tace, annichilita, o indifferente.
Eppure no. La virgola è importante.
Quella virgola di troppo mi dice che questa persona, che, data la sua
posizione, ha una enorme responsabilità culturale, ha smesso di
riflettere. Ha smesso di fare attenzione. Ha smesso di usare il
cervello e l'autocritica. Forse non l'ha mai usata. Allora chi ha
messo lì questa persona ha fatto un grave torto al Paese.
La virgola è il segno del respiro tra
le proposizioni. Senza quel respiro, o inserendolo dove non va, si
crea l'equivoco. La sintassi corretta è il segno della capacità di
costruire un discorso chiaro per tutti, comprensibile anche quando
complesso.
C'è una comunicazione che non ne ha
bisogno, ed è la comunicazione che semplifica, che usa gli slogan,
gli effetti speciali, i punti esclamativi, le faccine. Ma quel tipo
di comunicazione si ferma a un certo livello di facilità.
Se vogliamo approfondire, abbiamo
bisogno della sintassi. E se non approfondiamo, il progresso ci
porterà via con sé, insieme all'ignoranza, al PM10, al mal di
schiena, alla disoccupazione, alla furbizia di pochissimi e alla
disperazione di molti.
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